mercoledì 14 dicembre 2011

Un'invettiva notturna troppo lunga. Un flusso di coscienza.

In Italia le cose cambiano velocemente, così velocemente che si fa fatica a stare al passo, soprattutto da fuori. La rapidità degli stravolgimenti continua nonostante tutto a restare direttamente proporzionale alla dimensione dell’immobilità di un Paese e di uno Stato che non hanno nessuna voglia di cambiare sul serio. L’Italia è una nazione senza storia, di memoria breve e di dimenticanza facile. Un paese ignavo, senza coscienza civile, cialtrone, miserabilmente vuoto.
Un mese fa si esultava, si festeggiava la fine della tirannide, si cantava la rivoluzione, qualcuno intonava bella ciao. L’Italia era appena stata liberata da vent’anni di Berlusconi e già nel populismo dei programmi di Rai Uno si rideva e si applaudiva delle oscenità compiute da un uomo sostenuto ad oltranza fino a qualche momento prima da buona parte del paese. Ma Berlusconi aveva perso consenso e in Italia senza consenso, che poi è nel nostro caso il sentimento di identificazione delle masse con il leader non si va da nessuna parte, e il capo cade, vittima delle folle che prima lo avevano acclamato, voltafaccia ed ignave.
L’Europa, o meglio, il direttorio franco-tedesco, anch’esso accettato acriticamente fino a che le sue decisioni toccavano altri e non sopportato quando la scure delle sue imposizioni si è abbattuta su di noi, ci imponeva un cambiamento. I “mercati” non si fidavano di noi. E le profezie inascoltate per anni dai detestati , demoniaci economisti si sono rivelate realtà. L’Italia stava fallendo. Per fortuna la serietà delle istituzioni italiane restava incarnata dalla figura di Napolitano, che senza andar contro ad una virgola di delle sue prerogative presidenziali ha nominato Presidente del Consiglio, semplicemente, un uomo in grado di capire una crisi economica. Da quel momento tanto si è detto di Mario Monti e del suo governo, e le definizioni degli intellettuali della prima e dell’ultima ora si sono sprecate: il governo dei tecnocrati, l’uomo di Goldman Sachs, il potere delle banche, la democrazia declassata dai mercati, il burattino dell’Europa. Contro quelli che dovevano farci uscire da una situazione in cui saremmo marciti, noi e  i nostri centocinquanta anni di incoerenze e di stasi, si sono abbattute la rabbia e la frustrazione dei tanti che non aspettavano altro che l’arrivo di un capro espiatorio.
Ora, sia ben chiaro che il mio pensiero è assolutamente partigiano. Non pretendo che la mia verità sia considerata tale da tutti, ma allo stesso tempo rifiuto ogni logica facilmente relativista, per cui mi assumo la responsabilità di affermazioni che saranno volutamente estreme e provocatorie, non tanto per il gusto dell’accerchiamento o per masochismo, ma per un bisogno personalissimo di dire ciò che penso.
Chiarito questo fatto torno al mio racconto di parte. Monti e il suo governo hanno provato a proporre una manovra che aveva degli aspetti rivoluzionari, perché per la prima volta imponeva una legge del buon senso, della serietà, e senza clamori denunciava la furbizia e l’egoismo su cui abbiamo basato decenni di storia e di politica come atteggiamenti non più accettabili. L’abolizione dei vitalizi per i parlamentari, le liberalizzazioni, la tassa “una tantum” sui patrimoni rientranti in Italia grazie al geniale condono fiscale dell’incredibile Berlusconi. Tutto questo era autenticamente rivoluzionario. Finalmente, mi dicevo guardando quella conferenza stampa già storica. Finalmente. E guardavo la faccia di Giulia dall’altro lato del tavolo della sua casa a Parigi dove in quel momento preparavamo un esame, illuminarsi e venire a vedere anche lei. Finalmente le cose stanno cambiando. Un passo verso la fine degli sprechi della politica, un passo verso la concorrenza in settori in cui l’oligopolio non ha alcun senso se non quello di proteggere microscopiche caste; finalmente la prima di quella che speravamo una serie di misure, sempre più nette verso chi ha creduto di potersi arricchire alle spalle dell’Italia, nascondendo il suo denaro miserabile al caldo di ignave banche svizzere o di chissà quale altro squallido paradiso fiscale.
E ci guardavamo quasi commuovendoci insieme ad Elsa Fornero, quando ha ceduto al peso della sua responsabilità, quando proprio a lei è toccato dire che questo di certo non sarebbe bastato e che un sacrificio sarebbe stato chiesto a tutti, indistintamente; un sacrificio sulle proprie aspettative di vita, sui progetti candidi dell’ultima fase, fatti a pezzi o quasi dall’inevitabile taglio delle pensioni. Guardavo l’immagine di questa donna così rigida e razionale, così intelligente, mostrarsi finalmente nel suo lato umano. Ho stimato profondamente Elsa Fornero, come ministro e come donna. Ho sentito sul mio stomaco un po’ del peso che portava lei, come a volerle comunicare in qualche modo che la capivo, che mi rendevo conto del suo sforzo, della rabbia, della frustrazione per essersi dovuta in parte arrendere. E le ho creduto quando ha parlato del peso psicologico provato nell’affrontare certe scelte. Cosa deve essere sfavorire il lavoro e dare un colpo alla giustizia sociale, quando si è passata una vita a studiare il welfare, a stare dalla parte dei più fragili, non con le parole inutili dei soliti radical chic delle grandi occasioni, ma con la concentrazione costante ed alienante dello studio, con la volontà di tener fede alla missione del progresso sociale. Povera Fornero. Insultata, derisa, offesa, messa alla gogna ingiustamente nella sua umana sensibilità (che dall’impazzante ottica retrograda maschilista è ancora vista come femminile fragilità, quanta bassezza). Cosa avrà lei da piangere, si chiedevano i profeti del populismo d’accatto il giorno dopo, lei con i suoi uffici dorati, lei con i suoi figli con incarichi di prestigio, lei con le sue retribuzioni da professore universitario? Avrà da piangere, avrei voluto urlare io, perché lei ha lavorato per una vita per guadagnarsi gli uffici e le retribuzioni che ha meritato, ha studiato per una vita per diventare docente universitario ed invece di rinchiudersi in due stanze inutili ha avuto l’umiltà e il coraggio di accettare la sfida di avere a che fare con gente indisposta a qualsiasi tentativo di comprensione, impreparata e chiusa davanti alla richiesta necessaria di ogni sforzo condiviso. È andata a prendere a colpi di mannaia le pensioni quando avrebbe potuto starsene nelle sue aule, con i suoi studenti, a fare del facile sarcasmo sull’individuo X che avrebbe ricoperto al suo posto la carica di Ministro del Welfare. Non lo ha fatto, ha messo in gioco la sua professionalità e la sua persona, per diventare il re nudo di turno.
E mentre Beppe Grillo, l’autonominatosi poeta vate dei nostri tempi, invocava il dialogo coi movimenti, il Popolo Viola dei vendicatori anonimi si faceva centro propulsore delle critiche e delle invettive di ogni genere e sull’anti-giornalismo figlio dell’anti politica del Fatto Quotidiano si sprecavano commenti ai limiti del terzomondismo. Il “decreto salva Italia” ci seppellirà tutti! Le pensioni non vanno ridotte! Monti difende i privilegi! Il governo avrebbe dovuto imporre l’ICI alla Chiesa, non a chi ha lavorato per una vita per mettersi da parte i soldi per farsi una casa! Critiche assolutamente condivisibili, dal momento in cui si prende un momento storico, lo si estrapola dal contesto in cui si trova, si dimentica l’evoluzione di un Paese e si finge di trovarsi all’anno zero della sua costituzione. Incoerenza, cecità ed opportunismo mi hanno lasciata per giorni senza parole. L’incoerenza è evidente nell’approccio al tema delle pensioni: fino a ieri le parole erano per i giovani senza futuro, per i giovani senza pensione, per i giovani precari per colpa dei padri a tempo indeterminato, per i giovani senza lavoro. Oggi, all’improvviso, diventiamo un popolo di sostenitori attenti della terza età. La cecità si è mostrata nella volontà ferrea, da parte della nouvelle vague dei censori, di non vedere quei barlumi di innovazione, sicuramente lenti, sicuramente non sufficienti, che un governo sul filo del rasoio e che vive dimenandosi tra i diktat dei partiti di ogni schieramento stava cercando di immettere nella politica, ma anche nella cultura italiana, nell’atteggiamento collettivo. Si è detto che tassare dell’1,5 percento i capitali rientrati grazie allo scudo fiscale del governo passato non sarebbe stato abbastanza. L’Italia dei Valori, altro prodotto della deformazione della politica messa in atto dalla Seconda Repubblica non vedeva l’ora di accusare il nuovo governo di essere il patrono di tutti gli evasori. Ci sarebbe stato bisogno di una tassa più punitiva. Si sarebbe potuto fare di più, Monti avrebbe potuto rischiare. Ma perché nessuno ha messo l’accento sul fatto che con quel piccolo 1,5 percento si sarebbero coperte le pensioni di chi campa con dai 400 ai 900 euro al mese? Mi rispondo da sola, dicendomi che la parte costruttiva della critica costringe a mettere in discussione innanzitutto se stessi, e che restare sulla distruzione è banalmente più facile, perciò l’atteggiamento distruttivo, immediato e rabbioso è il più diffuso. L’opportunismo si è palesato nei suoi aspetti sociologicamente più interessanti nel tirare in ballo all’improvviso un ever green dimenticato da tempo: la Chiesa. Passato Berlusconi serviva un altro mostro sacro, in tutti i sensi. Certo, c’è davvero poco di più evidente dell’assurdità dei rapporti che intratteniamo con la Chiesa cattolica, ma l’attuale governo doveva davvero farsi carico di un problema che dal 1861 non solo la politica non ha risolto, ma che addirittura non ha fatto altro che alimentare, impotente per calcoli elettorali di fronte alla religiosità e alla superstizione di un popolo di guelfi? Come avrebbe reagito un partito come l’UDC  trovandosi a dover votare una norma che imponesse l’ICI sui beni della Chiesa? E il PDL? E l’ala dei cattolici del PD?
Il fatto è che da Monti e dal suo governo si è voluta esigere la rivoluzione, ma una rivoluzione non di tutti, quindi non una grande riscossa civile, non lo scatto di reni di una Nazione cosciente di sé, dei suoi errori, delle sue lentezze, del suo malcostume diffuso che decide, tutta insieme, di schierarsi dalla parte dello sforzo comune e di perseguire un obiettivo. Da questo governo ognuno ha preteso la propria rivoluzione personale, ognuno ha voluto che si togliessero risorse a qualsiasi cosa non riguardasse la propria sopravvivenza personale, ognuno ha richiesto che a pagare fosse qualcun altro. In sostanza, ognuno ha puntato i piedi, fermo sulle sue posizioni, sull’attaccamento ai propri beni, e nessuno ha accettato alcun sacrificio perché ogni sacrificio era di tutti, di ciascuno. Ma i sacrifici giusti non esistono e allora tanto vale cercare di preservare se stessi ed i propri simili dalla mannaia collettiva. E che ognuno si rifugi nel suo gruppo, nel suo privato, nel suo egoismo. Che paghi sempre il mio prossimo: che non paghi nessuno. Che tutto cambi purché siano gli altri a sostenere il progresso. Che non cambi niente. Tanto meglio.
E l’Italia continua a girare su se stessa, mentre il tempo passa e noi ci arrovelliamo sulla nostra inettitudine. Ora si sono ribellati i tassisti, una delle lobby più ingiustamente protette, e la loro micro casta resta fuori dalle liberalizzazioni. Un passo indietro. Domani si ribellano i farmacisti, quando si dice gente senza i soldi per campare. Ed altri passi indietro. Ieri si sono ribellati loro: loro che un paio di settimane fa, con la retorica d’accatto che li contraddistingue chiedevano a Monti la “riforma equa”, ognuno a suo modo. Loro che fecero del pietismo sui ricatti imposti dalla FIAT agli operai di Pomigliano (e che ora, per la cronaca, diventano regola); loro che volevano il dialogo con i giovani; loro che si arrampicavano sui tetti dei ricercatori; loro con Berlusconi o contro di lui; i parlamentari tutti uniti contro il ridimensionamento delle loro retribuzioni. Con un cavillo ridicolo, la lesione dell’ “autonomia del Parlamento”, hanno fatto escludere il tema dalla possibilità che sia affrontato da un decreto del governo. Morale, l’adeguamento alla media europea si farà, ma si farà con legge, quindi ci vorrà molto tempo e chissà che risultati ci saranno.
Davanti a tutto questo io mi vergogno. Mi vergogno della Nazione che vorrei amare, della gente che non vede al di là del suo naso, mi vergogno dei farmacisti che hanno il coraggio di lamentarsi, mi vergogno di chi dovrebbe rappresentare i cittadini e che invece usa il suo ruolo, il suo scranno, il suo volto a proprio piacimento, dimostrandosi ancora parte di una casta, mi vergogno dei critici di professione, mi vergogno della Sinistra che mi dovrebbe rappresentare, mi vergogno dei Sindacati che giocano allo sciopero perdendo completamente di vista i problemi dei lavoratori che non rappresentano più, mi vergogno della maggioranza.
Più passa il tempo più mi sembra che siamo davvero un paese di inadeguati, di individui piccoli, fermi su principi di comodo. E mi dispiace pensarla così, al punto che mi pare di essere caduta in una logica di massimalismo conservatore che accetta tutto come una forma di punizione per gli errori che abbiamo voluto accumulare impunemente per troppo tempo. Ma forse non è così e la mia è solo rabbia per chi si impegna, per chi lavora con passione, con dedizione, per chi fatica tutti i giorni per portare a casa un altro pezzo di dignità, per le persone oneste, serie, responsabili. E quanto c’è di più orrido in questa maledetta crisi è proprio il suo essersi abbattuta come sempre su tutti ed indistintamente, con una differenza sostanziale dovuta al fatto che i disonesti troveranno sempre qualche misero espediente per scamparla; i seri, quelli che pagano le tasse ed emettono scontrini, che non assumono lavoratori a nero, che non si assentano dal lavoro con la scusa del trisavolo morente, quelli che studiano invece di giocare alla rivoluzione, i non raccomandati, i non protetti si sobbarcheranno sulle spalle il peso degli oneri e delle microscopiche, provinciali delinquenze di tutti.
Ma questa minoranza che è tale in quanto silente, questo gruppo di spaesati, di sinceri, di appassionati, dovrebbe smetterla di mischiarsi al coro delle voci indistinte e iniziare a sentire la necessità di mostrarsi nella sua diversità, e che lo faccia con coerenza stoica. Il tempo delle grandi ingiustizie finirà, se finirà, per nome dell’individualismo sacrosanto delle responsabilità individuali, delle menti che accettano il proprio ruolo, lo portano avanti seriamente e sono pronte a condividere lo sforzo degli altri. Finirà quando i farmacisti e i loro simili si faranno due domande su cosa debba provare un metalmeccanico davanti agli alti forni, un edile su un palazzo di sei piani. Finirà quando ognuno esigerà dall’altro onestà, e smetterà di adeguarsi a comportamenti sbagliati per paura di trovarsi solo contro mulini a vento di ogni tipo, di girare la testa dall’altra parte per non affrontare la  moltitudine delle disonestà quotidiane. Finirà quando saremo pronti ad un riscatto comune, portato avanti da ciascuno nel limite delle proprie possibilità. Finirà quando saremo il popolo che adesso non siamo, un corpo di cittadini e non più folla forcaiola, ammasso di corpi, vuoti a perdere. 

"Fratello non temere
che corro al mio dovere"

Ilaria

sabato 19 novembre 2011

Parigi, però che bohème confortevole...

Questo blog  è un grande progetto mai portato a termine e che probabilmente neanche mai continuerò.
In questo periodo vorrei scrivere:
1-una lunga saga familiare
2-della crisi, di come uscirne, della fine di un ventennio, dell'eterodossia economica
3-una personalissima, assolutamente partigiana interpretazione del perché è difficile andarsene e facile restare, del perché quando si è perso e non lo si vuole ammettere ci si rifugia nel proprio cantuccio familial-provinciale e si smette di guardare fuori perché fuori è un mondo sterminato e selvaggio e non si è proprio in grado di affrontarlo.
Caso vuole che io non possa fare niente di tutto questo perché il tempo come sempre corre e io continuo ad imbarcarmi in imprese folli. L'impresa folle del momento è il mio anno a SciencesPo, il cui vero nome dovrebbe essere: di come riusciremo a mettervi alla prova facendovi desiderare di mollare tutto per vedere chi riesce ad arrivare sano alla fine dell'anno. L'obiettivo per adesso è quindi questo, sconfiggere il mostro universitario ed arrivare sana a giugno, senza paranoie su inutili medie e robaccia simile. Per cui mi godo Parigi, il mio più che cosmopolita quartiere di Montmartre, le foglie che cadono, l'immensità degli spazi, il viavai di gente, i compagni di viaggio, il camembert, la bière blanche e tutto il resto. E negli intervalli di tempo mi concentro su dissertazioni al limite dell'impossibile e ricerche bibliografiche senza fine. Scopro così cose fino a ieri ignote e luoghi in cui probabilmente mai andrò, tipo il Tatarstan. E la chiudo. E' sabato e fuori c'è un sole ghiacciato, il cielo è di un azzurro immobile. E questo è uno splendido Autunno.
Ilaria

giovedì 17 marzo 2011

Unita troppo unita

Due cose mi hanno commossa oggi. 
Gli alpini con i loro berretti e le loro piume, ultraottantenni arzilli e fieri, vecchi combattenti, reduci da quell'enorme campo di battaglia che è stato il Novecento, ora a distribuire caffè e biscotti per i temerari che si sono alzati alle sei di mattina per partecipare all'"alba della Nazione", in questa piccola, Forlì dal cuore tiepido. Uno di loro, in un bel discorso patriottico ma non banale, ha citato Oriana Fallaci. Nessuno me la tocchi questa Italia bistrattata, tuonava all'incirca così ne "La Rabbia e l'Orgoglio". Un colpo basso, va da sé, e ci scappa la lacrimuzza da parte mia, che rispondo alla retorica quando è sentita, quando è partecipata e si fa quindi sentimento sincero, come ad un comando morale, a un precetto religioso. 
La seconda scena, il pianto dei cantanti d'opera del coro del Nabucco diretto da Muti dopo il bis del Va' Pensiero, il 15 marzo scorso. L'ho appena visto in tv, che ogni tanto si rende utile, in una bella registrazione in un programma condotto dal mitico Gianni Minoli.
Perchè la "Patria", quando è "sì bella e perduta" allora è anche dimenticata. E quando si arriva a dimenticare è tardi per porre riparo alle nostre mancanze. Bisognava pensarci prima. E allora quando la cultura, la storia, la tradizione di un vecchio popolo è calpestata  è proprio giusto che un Maestro d'Orchestra faccia politica attiva, a suo modo, restando nel suo ruolo. E' giusto che faccia politica e quindi storia. Ed è giusto che i cantanti d'opera piangano di commozione, forse di orgoglio o di gioia, la festa è anche la loro.
La sensazione che ho avuto, o magari la speranza, in queste ore un po' a rincorrersi, rapide, piene di immagini e di memoria in cui foto di giovani partigiani e altrettanto giovani patrioti diventavano quasi interscambiabili, così simili tutti negli sguardi fieri e giovani, in cui si alternavano immagini di simboli ora un po' più comuni, è stata quindi quella di un grande risveglio collettivo, di una sorta di presa di coscienza generale di quanto stavamo lasciando scapparci dalle mani, di quanto avevamo rimosso o dimenticato, di tutta la storia che avevamo sprecato. E insieme a questo sentimento finale e irrimediabile, ho visto la voglia contemporanea di rimettersi all'opera per uscire dal baratro di presente in cui siamo finiti, spaesati come barchette microscopiche in balia di chissà quale tempesta. Ho visto l'alba, per quanto sia difficile, dentro l'imbrunire. Il Nabucco che ritorna al suo posto di grande opera lirica, libera e quindi di tutti, e non simbolo ingiustamente ridotto ad essere fazioso, non strumento di attacco politico, non prerogativa di una qualche prepotente minoranza è il simbolo di tutto questo. Come le bandiere tricolori sui balconi, anche, dei radical chic. 
L'idea è che oggi sia stato un po' l'inizio di una fase storica nuova, che mette insieme l'archeologia meticolosa del passato e la progettualità creativa per il futuro, pensiero e azione, alla Mazzini, per restare nel tema. L'idea è che la volontà di ricominciare daccapo, senza la finzione dell'essere tutti uguali, ma con la consapevolezza che delle radici comuni le abbiamo, si stia diffondendo. 
Ora sta tutto nel domani, nella fine della festa e nell'inizio della vita, sta tutto o quasi alla politica, che dovrà confermare quanto promesso nelle belle parole di oggi, negli applausi scroscianti al discorso impeccabile di quel simbolo umano che è Napolitano, l'ultimo presidente partigiano. E sta a noi scendere dalle barricate, senza rinunciare a singole e indispensabili individualità, ma riconoscendo nell'altro l'interlocutore, il compagno, il nostro simile.
Per tutto il giorno ho pensato a quelli che avrei voluto avessero assistito a questo giorno. Come al solito, nella schiera dei fantasmi, i miei nonni sconosciuti in prima fila. L'operaio e il dottore. Chissà cosa avrebbero fatto oggi. Una bella bandiera sul balcone, credo, come me che un po' l'ho appesa, nella sua rusticità, per sentirmi parte della storia che anche quelle due vite hanno contribuito a fare, per ringraziarli, per ricordarli, con tutti gli altri e con quelli prima di loro. 

lunedì 7 marzo 2011

un punto

Cronache sentimentali. Niente più di un collage di titoli di Vasco Pratolini riesce a descrivere ciò che mi riguarda. Pochi libri come Cronache di poveri amanti e Diario sentimentale sono riusciti a commuovermi, ad impressionarmi e a farmi identificare nella fragilità umana dei personaggi, nella poesia delle parole accostate a formare la prosa. Ho scelto questo titolo per ricominciare da me, per mettermi alla prova, dopo due anni a far finta di non aver più niente da dire. Due anni a chiedermi se fossi ancora in grado di mettere due parole in riga. Due anni e forse più dall'ultima frase che ho scritto dove anche altri all'infuori di me potessero leggerla. Poi più niente. Soltanto, ad accompagnarmi, una timidezza improvvisa, un salto indietro alla mia infanzia, al lungo sonno dei miei primi anni, alla mia paura del giudizio degli altri, alla fuga in angoli sempre più nascosti e silenziosi e vuoti. Due anni sono passati fatti di saluti e di cambiamenti epocali, di facce sempre pronte a voltarsi, ma dall'altra parte, di amici andati tra pause di silenzi interminabili e vite diverse a rincorrersi da altre parti, in posti comodamente lontani abbastanza per avere una scusa per lasciarsi andare, per dirsi che non si ha più niente da dire o per non dire niente e basta, perché le cose cambiano, le persone anche. Due anni kantianamente morali, di esami, di voti, di numeri gelidi da accumulare per andare avanti, unico mezzo e unico obiettivo di giorni senza prospettive e senza senso, per mia colpa, per mia incapacità, per la mia paura di scontrarmi con la vita, con gli altri.
Così ho aperto questo blog, un po' triste, un po' retorico per ora. Ma io so essere triste e so essere retorica, non ho affatto voglia di nascondermelo ancora per far finta di essere ciò che altri si aspettano, per modellarmi su misura per ottenere consensi, apprezzamenti inutili, sorrisi facili. Ho aperto questo blog per sapere che non sono invecchiata all'improvviso, che ho una vita da vivere, una vita da raccontarmi, da conservare in ogni attimo prezioso; per esistere senza sentirmi solo il progetto di ciò che sarò tra dieci anni, per non studiare e basta, per non smettere di avere voglia di essere altro. L'ho fatto per un sentimento atavico di narcisismo, per rileggermi e ridermi addosso o per sapere se ad altri interessa di ciò che passa in una vita di provincia, e se magari ci si rivedono, un poco; per sapere se un po' gli piace, se si nascondono quello che io mi dico, se sotto ogni sguardo si nasconda solo un "ipocrita lettore" o magari anche un "mio simile". 
Una mia cara amica mi ha fatto notare che entrambe sembriamo regredite allo stato della nostra depressione adolescenziale. Non le piace questa storia del blog, credo. Per lei deve essere un passo indietro. Per me, però, è il modo per ricominciare daccapo, per uscire dal silenzio profondo di questi ultimi anni a galleggiare aspettando non so bene cosa, a chiedermi quale fosse la cosa giusta da fare, a domandarmi quale fosse il comportamento adatto per piacere agli altri, e perchè la mia pesantezza, la mia timidezza non fossero capite, non fossero accettate o perchè io non fossi in grado di fare in modo che così fosse. E' il mio personale rimedio per tornare a dire a dire ciò che penso, a sentirmi viva, dopo troppo tempo passato nella macabra percezione del contrario.

domenica 6 marzo 2011

notizie dalla morte e dalla vita

Niente mi perseguita come la paura della morte. 
Avevo tre, quattro anni, nei primi ricordi che ho in mente segnati da quest'angoscia tremenda del vuoto, del nulla eterno, della fine di tutte le cose, dell'oblio. Mi svegliavo di notte sputando lacrime ansiose, interminabili. E mio padre, giovane allora, veniva a consolarmi, a dirmi di non preoccuparmi perchè "c'è sempre tanto tempo da vivere". Eppure quest'ansia non ha smesso di assillarmi. Ritorna in certe notti insonni, o prima di addormentarmi, come un pensiero fisso che fingo soltanto di accantonare nel giorno e che con il buio si ripresenta, ospite non certo benvenuto. Non credo di credere in un Dio. Questo non fa che peggiorare le cose. Allora mi metto a scrivere, conservo maniacalmente gli oggetti della mia vita. Metto da parte gli scontrini, i biglietti dei concerti e del cinema, recupero vecchie foto di famiglia, ho ancora da qualche parte le chiavi della vespa che qualcuno ha rubato, scrivo sulle prime pagine dei libri il mese e l'anno in cui li ho letti, come ha sempre fatto mia madre. Riordino la memoria, come se l'archeologia del passato servisse a non pensare a quel futuro inevitabile, al fatalismo misero dell'esistenza umana, alla sua precarietà. Ma al futuro ci penso e ogni volta lo immagino come ciò che desidero, come una casa accogliente, chiassosa nelle cene con vecchi amici, con i bicchieri sporchi di vino e l'aria densa del fumo delle nostre sigarette, con un disco a suonare piano mentre lavo i piatti aspettando la mattina dopo e lì una redazione affollata, caotica, e articoli da scrivere e vite da raccontare e per farlo viaggi, inchieste e la scoperta del mondo, l'andare per avere un posto in cui tornare e qualcuno ad aspettarmi, sulla porta.


A G.