lunedì 27 febbraio 2012

“Bella, che ci importa del mondo?”

 Ho messo la sveglia alle sette e mezza, e per tutta la notte mi sono svegliata convinta che fossero le sette e mezza. Una nottata strana e poi una mattinata convulsa, di cielo basso e con l’impressione che l’inverno finalmente sia finito. Esco di casa senza cappotto e chiudo a due mandate la porta. Ho lasciato una pentola da lavare. Pazienza, lo farò domani. Metropolitana, aeroporto, colazione, volo. Un’ora per aria come stare su un autobus, senza nemmeno un bagaglio, fatto salvo il mio panico da vuoti d’aria e turbolenze. Giulia, che si fa viaggi intercontinentali da quando è nata, deride le mie invettive variegate ogni volta in cui percepisco la  minima sensazione di non avere i piedi piantati per terra. E questo è essere ansiosi, aver paura molto prima che sia necessario farlo. Ho comprato La Repubblica, tanto per ricordarmi dove sto andando. In realtà leggo solo un articolo su Gramsci, pure brutto e abbastanza inutile a mio avviso, più di pettegolezzo su microscopici dettagli biografici che di sostanza sulla sua opera. Ma tant’è. Atterriamo un’ora dopo a Linate, ed è piena mattinata. Giulia blatera di pizza al taglio e di mortadella e si scaraventa contro il primo bancone di un bar, dove chiede un caffè macchiato, perché in Francia il caffè o è nero e lunghissimo, o è cappuccino con latte a lunga conservazione, o non è.  Io sono ancora stordita, mi viene l’istinto di andare a recuperare la valigia ad uno dei soliti tapis roulant affollati di gente convinta che se non afferrasse il bagaglio al primo giro, quello poi sparirebbe per sempre, risucchiato da uno di quei meandri nascosti degli aeroporti, che sanno tanto di dietro le quinte inaccessibili. Però la valigia non ce l’ho. Ho una borsa che è la stessa che uso per uscire la mattina e andarmene a SciencesPo. Seguo Giulia al bar e il caffè macchiato me lo prendo pure io, e nel frattempo ho già chiesto almeno due “pardon” e “merci”. Poi usciamo fuori e la sensazione che avevamo provato appena scese dall’aereo si moltiplica, si ingigantisce. C’è nell’aria odore di caldo, vento già tiepido e il sole sbatte fortissimo sull’asfalto delle strade. Da quanto tempo non vedevo quell’azzurro? L’Italia agli albori della vita nuova è qualcosa di eclatante, è l’apoteosi della gioia, è il colore che ritorna se stesso dopo le nuvole, la pioggia, la neve fastidiosa che ti bagna le scarpe, quella noia di stagione che è l’inverno. Non ho chiaro dove mi trovo, al di là della nazione evidentemente, e penso che quel Linate in cui mai ero atterrata potrebbe essere vicino a qualsiasi città, Roma come Firenze . C’è solo quella pianura sterminata a ricordarmi la geografia lombarda, rotta dalla mano dell’uomo, che l’ha riempita di grossi cubi di cemento, simboli di un potere monopolizzato e ben nascosto dietro i vetri a specchio. Ma non sembra di stare a Milano. Il ragazzo del tabacchi è simpatico, le persone chiedono informazioni con gentilezza; nessuno nell’autobus pieno e silenzioso che abbiamo preso per arrivare in centro guarda Giulia stranito, quando lei parla al telefono con la sua voce alta ed entusiasta. Ci penso io a lanciarle un’occhiata burbera di quelle mie, come a dire “guarda che qua le persone parlano la nostra lingua, e se urli ti capiscono tutti”. So essere di una pesantezza di cui ogni volta mi pento, ma che almeno ho imparato a riconoscere. Non capisco neppure io perché la guardo così, come se ci fosse qualcosa di male nell’aver preso un aereo da Parigi per stare un giorno in Italia, causa uno degli ultimi concerti della carriera di Fossati. E infatti smetto di fissarla con quel tono censore e mi metto a guardare fuori, Viale Corsica che è un rettilineo infinito che comincia proprio con l’aeroporto e finisce non so dove. Scendiamo a pochi metri da Piazza San Babila, uno dei miei tre punti di riferimento in una città conosciuta a tratti, e per merito o per colpa della mia amica Fra. In giro è pieno di gente e noi siamo già in maniche corte, accaldate dalla primavera o dall’entusiasmo. Giulia ora parla di pasta, io mi lamento perché ci sono in giro bambini mascherati. Ma carnevale non è finito!?!? Porca miseria, il carnevale ambrosiano. Ci buttiamo nel delirio del centro, che altro non possiamo fare. Via fra bombolette di schiuma e tentativi molteplici di  venderci maschere o coriandoli. Cerchiamo un ristorante, che abbiamo voglia di pasta. E intanto cammino e mi rendo conto mio malgrado che forse Milano è bella. Che sarà che oggi lo smog non si sente, saranno questi ragazzini vestiti da arlecchini o questi adulti sgargianti; sarà che è carnevale e la gente è proprio contenta, sarà il sole, sarà l’Italia, sarà  staccare la testa dall’università, sarà pensare a quanto mi sento bene per aver preso quest’aereo da Parigi e quanto sarà bello ritornarci il giorno dopo. Davanti al Duomo ci fermiamo un attimo, sembra messo meglio del solito anche lui. Poi guardiamo La Scala di lato, che la fame è più forte della voglia di fare del turismo. Nel ristorante un’elegantissima anziana e una quarantenne pronta a negare le sue iniezioni di botox ordinano “qualcosa di fresco e leggero” e parlano di “un evento che nasce come concetto di mercatino e diventa expo d’arte”… EH!??!. E’ pure la settimana della moda da queste parti. Ci mettiamo a fumare dopo il nostro pranzo di gnocchi e di ravioli in una piazzetta che sembra Bologna. L’aggettivo bello si spreca, realizziamo che forse la nostra gioia sta diventando melense, quasi sicuramente patetica. E nonostante questo la rivendichiamo, ridiamo di noi. E ce ne andiamo verso il Castello sforzesco e lungo il cammino c’è il Teatro Piccolo. E ancora mi rendo conto che questa città che a priori come tante cose avevo così spesso maltrattato, detestato, insultato, non è brutta né grigia né fredda, affatto. Giulia che ormai mi conosce mi invita a ragionare e a non parlare. “Ricordati che è una giornata particolare, non sarà certo tutti i giorni così. Ricordati che siamo felici per questo microscopico finesettimana. Ricordati che in questo stato mentale avresti amato qualsiasi città”. La voce di una ragione netta, inconfutabile.  
E allora camminiamo nei nostri vestiti francesi e io in quella che Fra ha soprannominato “questa giacca da lesbica”.
Ragiono sulla relatività dello spazio e su come la provenienza influenzi le nostre credenze sui posti in cui stiamo. Milano vista un momento con gli occhi di Parigi è piccolissima e umana; le persone si confondono nella loro diversità, sono una marea viva e vociante di grande imponenza, non appartengono a nessuno stereotipo. Sono gentili, sono scorbutiche, pronte allo scherzo e irascibili. E si snodano come tentacoli lungo le strade, le riempiono dei loro discorsi seri e velleitari. Mi ricordo di quello che avevo letto su Milano nelle pagine di Rossana Rossanda, del suo definire quella città come l’avanguardia d’Italia, il centro da cui le influenze che vengono da fuori si sintetizzano e iniziano a diramarsi a meridione, il punto di contatto con l’Europa e col  mondo. Deve avere ragione perché io sento di stare in un posto che è Italia e basta e che all’improvviso non ha nessuna connotazione. Questo sole giallo non mi sembra così diverso da quello della mia Formia stretta dalle montagne sull’acqua del golfo. E anche quell’odore senza nome, ma che ti fa dire per un secondo “casa”, anche lui è simile. Sento mia madre al telefono per il suo compleanno e la sento per un momento raggiungibile, vicina. L’Italia è troppo piccola perché le distanze che ci sembrano invalicabili esistano davvero. Siamo tutti più simili di quanto non ci piaccia credere, un po’ statici nel nostro proverbiale, atavico campanilismo inventato. Non temo quel miscuglio di individui e non mi sento giudicata come mi era capitato le altre volte in cui ero approdata in questa città, venendo dal sud e dall’adolescenza. Mi sento cittadina di un mondo troppo vasto perché dal mio aspetto si possa riconoscere la storia breve che mi porto appresso. Mi confondo in una folla di individui qualunque e ciascuno a suo modo e mi sento bene.
Incontriamo Fra che si muove nel suo ambiente perfettamente a suo agio e per la prima volta sento di non dovermi nascondere dietro lei, ma di poterle camminare affianco. Chiacchieriamo tra un bicchiere di vino e un attimo di sarcasmo. S’è fatta sera e le luci dei lampioni illuminano adesso le vetrate del Duomo, che noto per la prima volta e che sono così belle. Io e Giulia ci avviamo verso la stazione, un altro autobus e poi il Teatro degli Arcimboldi, che sarebbe raggiungibile a piedi in una passeggiata di trenta scarsissimi minuti, se non l’avessero collegato al centro con quella specie di tangenziale desolante. Al concerto di Fossati vige un religioso silenzio, che io trovo in certi casi controproducente. Mi dico che se fossi un cantante e la gente non cantasse  le mie canzoni ai concerti io un po’ mi deprimerei. Lo ripeto a tutti da due giorni e tutti mi dicono che i concerti di Guccini hanno fuorviato la mia visione delle cose. È possibile, ma io il religioso silenzio non lo rispetto e ci scappa proprio una bella cantata urlata e liberatoria sull’ “e mi sogno i sognatori che aspettano la primavera o qualche altra primavera da aspettare ancora…”.
Fra ci ospita nella sua casa di Monza per la notte. Grace mi fa finalmente le feste. Peli di cane buono, felice. La mattina dopo colazione con due cornetti alla crema e Maurizio che per pranzo arrostisce polli e ci fa un antipasto a base di mortadella che quasi quasi ci commuove. C’è ancora il sole e Monza rilassa, è domenica mattina e le pasticcerie hanno code di padri di famiglia in attesa dei loro bignè; i bar pullulano di vecchi che discutono di Juventus e di Milan. Sembrerebbe davvero di stare a casa, se l’accento fosse tendente al napoletano e non brianzolo. Ma il carattere è proprio lo stesso. Dopo pranzo ce ne andiamo in aeroporto, e nel giro di mezz’ora siamo sull’aereo che ci riporta a casa, in preda a uno schema di Bartezzaghi  che mi pare di non aver visto per anni. Parigi è nuvolosa, e le boulangeries sfornano baguettes e pani al burro di ogni tipo e dimensione. Me ne ritorno alla mia Porte de Clignancourt e in un momento di relax e di pensieri affollati mi metto ad ascoltare radio tre. C’è Nanni Moretti, una sorpresa che mi sembra fatta apposta, e che mi fa sorridere. E mi addormento stordita da questi due giorni inconsueti e meravigliosi, fuori dal tempo davvero. E stamattina mi sveglio e fuori c’è il sole ed è forte, l’aria è pulita e se non vedessi qui vicino la fermata della metro e se la gente non parlasse questa lingua meravigliosa che è il francese, sembrerebbe proprio di stare a casa. E a casa ci sono; la mia ennesima casa fra le tante che ho vissuto, questo crocevia di boulevards, questa pianura interrotta da una punta sola, questo mare di palazzi eleganti, questa Babele di kebab. E di pane e salame. 

mercoledì 22 febbraio 2012

Lettera apertissima, o le risposte che non ho dato

Non ho seguito un consiglio che mi è stato dato; quello di evitare di pensare a determinati discorsi con cui sono stata inondata per non distogliermi dal mio raccoglimento amendolian-fumatore. Non fumo tabacco pensando ad Amendola, non mi diletto a spendere tempo coltivando una presunta profondità che non mi appartiene o che, se mi appartiene, con un atteggiamento di chiusura o di banalissima, comunissima riflessione, non può che restare uno sterile accumulo di nozioni. Però in questi giorni ho fumato tabacco pensando alla società, al perché la ritengo così importante, al perché sono di sinistra, al perché vado affermando il mio amore per Parigi giustificandolo con il fatto che qui ci si sente inosservati. Soprattutto, in questi giorni ho fumato tabacco insultandomi in silenzio per non essere riuscita a rispondere a nessuna di queste domande, quando mi sono state poste, e per essermi sentita la chiesa su cui un simpatico individuo ha defecato. E la risposta qui è facile. Non mi sento a mio agio davanti al plotone di esecuzione. Non è rilassante partorire risposte sapendo di dover pesare ogni parola perché di ogni tua affermazione verrà messa in risalto la contraddizione rispetto a qualcosa che avevi affermato poco prima, o l’assenza di una base valida su cui fondarla. Si genera in quel caso il meccanismo mentale che per anni mi ha portata a non fare mai una domanda a lezione, a non intervenire mai in un dibattito; quello che ti porta a ragionare talmente tanto su una cosa intelligente da dire per non sfigurare, che le plausibili conseguenze sono solo due: o viene alla luce il pensiero più inutile che la mente umana abbia mai creato, o stai in silenzio in una completa,benché apparente, mancanza di idee. Ora, io non sto certo qui ad accusare nessuno di essere un plotone di esecuzione, potrei essere io a sentirmi il condannato in modo del tutto ingiustificato, o per una paranoica mania di persecuzione. L'ardua sentenza, sempre, ai posteri. E’ sempre una questione di percezioni e di punti di vista. E il mio punto di vista mi ha portata più volte a chiedermi, in una conversazione (leggi monologo) in cui mi sono imbattuta qualche giorno fa, se l’interesse del mio interlocutore fosse conoscere quello che pensavo su determinati fatti, farmi rendere conto dell’abisso di ignoranza in cui, a suo modo di vedere, vegeto, oppure testare la mia progressione intellettuale (paroloni, ma è per rendere l’idea) per capire se avesse davvero avuto senso parlare con me e se, nel caso, avesse senso parlarci ancora. Delle tre, l’ultima mi sembra fuori da ogni dubbio la più veritiera. E anche la più assurda. Dal mio punto di vista, è chiaro.
Detto questo non vedo nessuna contraddizione nel fatto che contemporaneamente affermo di stare bene a Parigi perché qui si può stare anche da soli e di assegnare grande importanza alla coesione sociale.
Nella prima affermazione c’è niente altro che un bisogno di indipendenza e di libertà. Non siamo nati per mettere tutta la nostra vita in comune con gli altri, ma anche per poter essere indipendenti, in mezzo agli altri. Si è liberi anche quando non si sente lo sguardo e il giudizio della gente addosso, condizione che chi viene dalla provincia capisce perfettamente. Si è liberi quando si è ignorati perché ciò significa che la gente che ti circonda ha imparato ad accettare comportamenti e stili di vita diversi dai suoi come dati di fatto su cui non si ha il diritto di sindacare, perché rientrano nella sfera della vita privata di ciascuno. Questo non significa volontà di mettersi al riparo dal mondo, ma mischiarsi, con le proprie personali e opinabili peculiarità, in una gigantesca  moltitudine di individui liberi di essere come vogliono.
La coesione sociale è un’altra cosa e rientra nell’ambito pubblico. Come gli uomini non sono fatti per mettere tutta la loro vita in comune, non sono neanche fatti per passare tutta la loro beata esistenza in uno stato di autarchia totale, ad eccezione del Nanni Moretti dei tempi prima dell’oro. E questo lo dimostra una banale constatazione della realtà. Perché dovrebbero esistere le famiglie, o i gruppi di amici? Perché altrimenti l’uomo dovrebbe sentire la necessità di consultarsi continuamente con i propri simili, di ricercare punti di vista diversi oppure di omologarsi per sentirsi appartenente ad un gruppo di pari? E tu dirai, non lo so ma forse lo dirai, che la socializzazione primaria e secondaria  non rispondono a dei bisogni individuali, ma servono ad indirizzare gli individui verso comportamenti accettati dagli altri e che non sono naturali, ma costruiti perché utili al modo in cui la società stessa funziona e si riproduce. Ed io con questo fatto sono solo parzialmente d’accordo. Perché se è vero secondo me che la società, per sopravvivere nelle sue forme, richiede persone in grado di stare fra gli altri in un modo a lei funzionale, è pure vero secondo me che lo stato di natura di Locke è completa finzione e che gli uomini non hanno dato vita agli stati ed alle società perché erano talmente buoni, bravi e razionali da farsi venire in mente un’idea ancora più buona, brava e razionale e capace di rendere ancora più efficace il godimento di diritti già esistenti nello stato di natura. Io credo che gli uomini abbiano dato vita agli stati ed alle società per una volontà di controllo reciproco, per sentirsi tutelati da ogni rischio di prevaricazione, per poter vivere pacificamente in mezzo agli altri, condividendo i beni pubblici e lavorando per guadagnarsi quelli privati, finalità per cui è valsa la pena rinunciare ad un pezzo della propria autonomia. La società plasma gli uomini ma è fatta di uomini e da loro a sua volta è plasmata per rispondere ad interessi che loro hanno e che percepiscono come fondamentali.
E qua veniamo alla giustizia sociale. Perché dovrebbe avere così tanta importanza? Perché solo se tutti hanno la possibilità di scegliere e di lavorare per costruire la vita che hanno in mente e che desiderano allora tutti sono liberi. Libertà non è libertà dagli altri, ma libertà con gli altri. E se è vero, come diceva Simone Weil, che la si raggiunge solamente con l’alienazione del lavoro che ci dà la possibilità di vincere noi stessi, è pure vero che se una gran parte delle persone non fa che vivere in uno stato di alienazione fine a se stesso perché privo di qualsiasi prospettiva di miglioramento delle condizioni proprie o di chi verrà dopo di lui, allora vivere non è che una ripetizione automatica di gesti  senza alcuna finalità per sé, fino al giorno in cui si muore. Un minimo di giustizia sociale è necessario per garantire a tutti il godimento della propria umanità. E allo stesso tempo dal momento in cui si sta in delle società fatte di regole che abbiamo scelto di mettere in piedi, visto che nessun dio le ha imposte,  allora quelle regole vanno rispettate. Dal momento in cui mettendosi con gli altri gli uomini hanno rinunciato ad una parte della loro autonomia, non è più un comportamento sociale quello dell’individuo libero da ogni restrizione rispetto a quello dell’altro talmente costretto dal suo stato di necessità da diventare schiavo di tutto. A quel punto nella società non ci stiamo più. A quel punto siamo in una specie di grosso stato di natura, fatto di diffidenza reciproca, di solo individualismo e ancora di lotta e di prevaricazione, a cui i soggetti più potenti hanno dato una parvenza normativa mettendo delle regole a privilegio di se stessi e a discapito della maggioranza, spacciandola per una condizione utile a tutti.
Per questo mi sento una persona di sinistra, perché gli uomini stanno insieme per tutelarsi insieme ed è possibile farlo solo se tutti hanno la possibilità di emanciparsi dalla propria condizione di partenza. L’uomo alienato non è uomo; l’uomo schiavo non è uomo.
Bene, ho risposto all’interrogazione con questo mediocre compitino che tutto sommato ho affrontato per il gusto che ho di mettermi in discussione, di espormi al giudizio o, che ne so, in modo masochistico al pubblico ludibrio. Ma i commenti non li temo, la sensazione di partecipare alla mia derisione mi infastidisce decisamente di più.
Con la coscienza apposto, i puntini sulle “i” e tante scuse a poveri ,immensi pensatori da cui derivo le mie idee,

Ilaria

p.s.  Ora potrò dedicarmi di nuovo ad altre e più basse attività, tipo leggere Memorie di Adriano. Così poi potrò fumare tabacco anche pensando a Yourcenar.

domenica 19 febbraio 2012

Monologhi

Perché? E’ la domanda che fanno i bambini, mossi sempre dal desiderio di conoscere il motivo, di capire in senso. E’ la domanda figlia della curiosità e per questo potrebbe essere ripetuta in eterno, fino a che c’è qualcosa da capire, un particolare non detto, un aspetto poco chiaro. E nelle risposte c’è sempre qualcosa di sorprendente, di nuovo che sa di rivelazione. E in quella rivelazione ancora un dubbio su cui si è glissato, coscienti dell’impossibilità perlomeno momentanea di scioglierlo. E su quel dubbio, su quel tono ora più basso della voce, sul momento di incertezza si inserisce di nuovo la domanda. Perché? Ripetuta fino allo sfinimento, fino a che tutto sarà compreso in poche frasi chiare, immediate.
Ma l’immediatezza la si perde per strada, appena si intuisce l’importanza del silenzio, la necessità della riflessione e si sceglie di coltivarla in contrasto alla facilità con cui si spacciano ovvietà per verità, punti di vista soggettivi perché storicamente e socialmente determinati, per dati di fatto inconfutabili. E se poi è un adulto ad incalzarti coi perché, con domande che non vogliono arrivare a capire come la pensi partendo dal presupposto che ciò che pensi ha già un suo valore nello sforzo che sta dietro la formazione dell’opinione, ma metterti in difficoltà fino a farti dubitare della validità del tuo pensiero, fino a criticare l’assenza di radici del tuo sistema di valori, per svelare che il tuo non è forse neppure un pensiero, ma una massa di credenze nemmeno coerenti, di assunzioni para-metafisiche incollate come un brutto puzzle per far sfoggio di una presunta, inconsistente profondità, allora arrivi alla resa. E ti ritrovi stanca, svuotata. L’umiliazione la percepisci perché ci tieni a confrontarti con le persone,  a maggior ragione se le ritieni meritevoli di stima, e a prendere spunto dai pareri che ti vengono offerti e capire se anche tu puoi arricchirli di un aspetto che non era stato considerato. Il confronto è per me condivisione, regalo reciproco. Ma dal momento in cui da scambio di prospettive ugualmente dignitose si passa all’univocità del sermone, il confronto diventa indottrinamento, prevaricazione ingiustificata. E mi sembra di trovarmi davanti il micro-potere di Focault. E me ne allontano delusa, e pure convinta che la demolizione sistematica non sia il modo più valido per mettere in discussione l’interlocutore o il discepolo di turno, a seconda di come il nostro ego ci consiglia di considerarlo, solo il più facile per non svelare se stessi, dietro l’aggressività colta delle proprie motivazioni, delle raffiche di domande, dei tentennamenti di cui solo agli altri si chiede conto, ingessati sul pulpito delle proprie soggettive certezze oggettive, o della propria superbia.

Ilaria

mercoledì 8 febbraio 2012

Il più caro, il più fedele.


Mi avevano detto che non stava più bene. Tredici anni come averne addosso oltre cento, sarà stato stanco di correre nel giardino, di annusare l'odore dell'aria e ululare alla luna facendo sognare a tutti noi, pochi, che lo guardavamo, parentele con lontani lupi romantici, solitari. Me lo ricordo bene quando è arrivato. Io e Carmine non eravamo che ragazzini, otto e dodici anni e tanto tempo a pregare e implorare la presenza di un cane. Mia madre e mio padre non sono mai stati dei cinici, così quando seppero di una cucciolata, non credo ci pensarono su tanto a lungo. O forse ne discussero per bene, ma la prima ipotesi mi piace di più, e mi sembra veritiera. Andammo tutti insieme in questa campagna piena di cuccioli bianchi, tutti dolci, tutti teneri, tutti con quegli occhi nocciola di animali vispi, di vite appena nate, entusiasti di correre in un recinto, di saltarsi addosso, di mordicchiarsi l'un l'altro. Non riuscimmo a decidere, mi ricordo. E mi ricordo che andando verso la macchina uno di quegli esseri bianchi e pelosi ci rincorse per un po', col suo trottare impacciato di cucciolo. Il cane che sarebbe diventato il nostro Smile aveva scelto noi quattro, togliendoci dall'impaccio. Non era certamente il cucciolo più aggraziato, con quella coda alla fine tutta spellata, che per curarla ci volle la santa pazienza di mia madre e non so quale unguento miracoloso da spargere per farci ricrescere i peli. E i peli crebbero piano piano, divenne presto un cane bello, elegante nel suo meticciato, nel suo bianco macchiato. Ma che razza è? Un incrocio tra un maremmano e un pointer. E che cane è un pointer? Un cane da caccia, che io non avevo mai visto. Però mi avevano detto così e così io ripetevo a tutti quelli che mi ponevano l'odiosa domanda. Cosa ci sarà stato di tanto  interessante nel conoscere la razza di un cane. E' lui che bisogna conoscere, è il carattere, sono le attitudini, le passioni, i giochi prediletti, le voglie irrefrenabili, i vizi. 
Smile si chiamava così per un'idea di mia madre. Guardate, ci diceva, sorride. Sorrideva quando tirava fuori la lingua, affaticato da qualche corsa o dal caldo, e le labbra gli si incurvavano in una smorfia allegra, beata di goduria autentica. Forse tutti i cani sembrano sorridere quando fanno così, però Smile sorrideva di più. L'avevamo deciso noi, tutti presi dall'onorare degnamente quella nuova presenza in famiglia. Sorriso, che secondo noi si doveva tradurre in inglese con "Smart". L'errore durò un paio di giorni; un fido Garzanti italiano-inglese ci aiutò a ravvederci.
Il giorno dell'arrivo di Smile a casa, lo portò papà, sentivamo che era tutto pronto. Doveva avere una poltrona come cuccia(prima di una lunga serie di mobili devastati), due ciotole, che all'epoca erano una blu e una verde acqua, e un collare. Il collare lo ricordo ancora, era di quelli ad imbragatura, non sia mai a fargli male al collo per tirarlo, mi pare verde e forse con dei pupazzi disegnati. Ci mettemmo un po' a capire come usarlo, e comunque quel collare non durò. Smile smise presto di essere un cucciolo ed anche di essere un cane obbediente. I miei hanno usato ogni tipo di guinzaglio, e non ha mai smesso di tirare nelle passeggiate sul lungomare, fino a quando la stanchezza ha preso il posto della voglia di avventurarsi per pali e palme, marciapiedi, panchine e qualsiasi cosa si ergesse in verticale, alla ricerca del posto adatto per farsi una sana pisciata. Il posto adatto era il posto qualunque. Dicevo che il giorno del suo arrivo ci sentivamo preparati, da veri naif. Chiamai il mio amico Claudio per festeggiare l'evento, presi Smile, lo misi sulla poltrona e lo coprii con un plaid. Era settembre o ottobre, doveva morire di caldo. Si divincolò presto, io mi resi conto allora che non si trattava di una bambola, e che quell'arnese peloso e zampato avrebbe potuto mettere la sua volontà contro la mia. L'ho amato molto per questo. Ad un certo punto di quel glorioso pomeriggio mamma uscì, e doveva essere fuori anche papà. Smile ci mise di fronte all'evento a cui non eravamo preparati; di fronte allo stupore di mio fratello Carmine e Claudio e al mio, fece la cacca. Il "Che  fare?" ci assalì. La risolvemmo facile, paletta, scopa, scottex e una pezza. Col tempo avremmo imparato. 

Da quel giorno Smile ha accompagnato le nostre vite, mai sullo sfondo, sempre come la prima traccia di casa, come un fratello, un figlio, un amico. Croce e delizia di chiunque varcasse la porta di casa nostra. Quanto a me, ho sempre messo regole chiare con i miei amici: non osservatelo, non fate i simpatici, prima o poi sarà lui a venirvi a cercare. Ha fatto così con tutti tranne che con un tipo che aveva infranto la regola d'oro. Si è beccato una nasata in fronte, e secondo me Smile aveva tutte le ragioni del mondo. Non si invadono gli spazi vitali altrui per soddisfare il proprio ego.
Mamma, fra tutti, è quella che l'ha curato di più. Me la ricordo bene, per un lungo periodo infernale, svegliarsi all'alba con qualsiasi clima per portarlo a spasso. Mi ricordo i veterinari e le vaccinazioni e i microcip. Mi ricordo quando l'abbiamo portato a farsi la doccia in una specie di centro animali. Non l'avevo mai visto così ridicolo, ricoperto di spuma che lo faceva sembrare finalmente un maremmano, tanto ne aumentava il volume, e poi passare terrorizzato, e coda fra le zampe di rigore, sotto un phon di dimensioni macroscopiche che soffiava così forte da farlo sembrare un cane nella galleria del vento. Io e mamma ridemmo molto, lui restò traumatizzato. Ha odiato il phon per tutta la vita. Era una buona arma per allontanarlo dal bagno quando ci si asciugava i capelli e lui si metteva là, l'onnipresente, senza essere stato invitato. 

Quanto a mio padre, credo Smile nutrisse per lui un grande rispetto. Non che fosse particolarmente ubbidiente, questa non è mai stata la sua indole, però in sua presenza si è sempre comportato in maniera composta, direi educata. Ogni tanto quando papà sonnecchiava sul divano Smile ci si arrampicava anche lui. Si sedeva, gli chiedeva qualche coccola sfiorandolo un po' con la zampa. Papà si lamentava come è nel dna dei D'Angelis, metteva il muso lui e non il cane, e poi lo accarezzava. Ha sempre dimostrato il suo affetto così, uno sbuffo e poi il cedimento inevitabile all'amore. A volte gli piazzava la bianca testa pelosa sulle ginocchia, papà lo accarezzava con le sue mani pesanti. Erano comici a vedersi. Intenerivano.C'era un periodo, che mio padre e io ci eravamo fissati con la raccolta delle noci in giardino. Sarà durato un mese? Non lo so; non so neppure se mio padre raccogliesse noci anche prima della mia età della ragione. So per certo che Smile se ne stava baldanzoso a vagare per il prato mentre noi due a schiena curva, e io con grande gioia, raccoglievamo noci da terra. Era stancante. Smile arrivava un attimo dopo. Le rubava e se le portava via come chissà quale premio. Poi le leccava con cura fino a farle belle lucide, solo a quel punto triturava il guscio e ne assaporava metodicamente il frutto. Amava le noci come amava le bucce di mela e svariati altri frutti; ai cani piace mangiare bene e mi pare di aver capito che ognuno ha il suo cibo prediletto. Smile è stato cresciuto a croccantini, per una questione di salute oltre che di praticità. E quando gli toccava un po' di pasta in avanzo, o il pane, o gli innumerevoli premi che dovevamo scambiare con lui per ottenere in cambio due secondi di obbedienza, era sempre una festa, una grande conquista. Una volta per il suo compleanno gli avevamo preparato apposta della pasta, gli avevamo messo un cappellino fluorescente di carta e gli avevamo fatto delle foto che ancora ho conservate in una delle mie scatole dei cimeli, mentre lui ingurgitava al suono di tanti auguri a te. Mi pare di ricordare che Carmine avesse cercato di opporsi a quella che doveva sembrargli una tortura, noi altri ne eravamo felici. L'idea del cappellino era stata mia, mi sentivo gagliarda, un genio. Smile era in grado di divorare piatti di pasta ad una velocità impressionante e con una tecnica degna di nota. L'azione si svolgeva così. Lui, pietoso ricattatore, era fuori dalla cucina in attesa. All'apertura della porta si metteva come sull'attenti, e quando il piatto di plastica con dentro la pasta veniva calato dall'alto, come una manna dal cielo, lui col muso lo poggiava al muro per non farlo scivolare e giù ad ingoiare, così veloce che dubitavamo riuscisse a respirare nel frattempo. Una volta impiegò qualcosa come 12 o 15 secondi. Non lo dimenticherò mai, quel momento, come tutto il resto. Ha sempre seguito mia madre in ogni suo passo ed è sempre stato al corrente di tutti gli orari delle nostre giornate. Tutti, tornando a casa, l'hanno trovato ad aspettare sul balcone, o sul pianerottolo, o dietro una finestra. Tutti noi siamo stati onorati della sua gioia, del suo scodinzolio prima vispo, poi molto serio, fino a quei flebili accenni di entusiasmo della sua stanca vecchiaia. Tutti noi lo abbiamo percepito arrivare, con il ticchettare del suo buonumore, verso il divano, porgerci il muso per l'attimo necessario a convincerci ad una coccola e poi voltarsi di spalle, a reclamare delle somme grattate sul fondo schiena, che lo facevano impazzire. Tutti noi lo abbiamo visto sgattaiolare in cucina, appostarsi sotto il tavolo del corridoio con il muso a indovinare i nostri passi, o dormire con l'espressione della beatitudine in faccia al vento e al sole delle primavere e degli autunni, per rientrare in cerca di ombra d'estate, di caldo in inverno. E per tanti inverni io e lui ci siamo scaldati insieme. Gli lasciavo la porta della mia stanza appena aperta e lo sentivo, delicato come sempre, salire sul mio letto, fare un paio di giri su se stesso e acciambellarsi ai miei piedi. Le mattine dopo, quando lui sempre prima di me si svegliava, l'acciambellata ero io e lui disteso in tutta la sua lunghezza, da principe quale è sempre stato. Smile ha curato la mia solitudine con quei suoi strani sogni notturni che lo facevano muovere come se corresse su chissà quale prateria sterminata, ha curato la mia paura della morte, della notte, del buio. Mi ha guardata crescere e ha subito le mie torture, e i soprannomi strani che ognuno di noi ogni tanto gli ha dato. Quando Carmine partì per l'università, per Bologna, Smile ha riempito il vuoto che la partenza di un fratello che ti sembra sempre più adulto e lontano, con i tuoi occhi adolescenti, ti lascia inevitabilmente addosso.
Tutte le partenze che hanno contraddistinto quella mia cara casa di irrequieti, Smile le ha riempite con i suoi dispetti di cane, con la sua fiducia indiscriminata di cane. Ed ha evitato per me i vuoti irreparabili, e la tristezza di ogni separazione. E' stato una cura per tutti noi, e una riserva d'amore mai invadente e sempre presente. Andargli vicino a canticchiargli un motivetto e sentirsi osservati da quella sua faccia interrogativa, dai suoi occhi marroni, profondi e buoni, da cui mai è trasparito un giudizio. Neanche quando avrebbe avuto ragione a detestarci per averlo portato in un centro di addestramento nella speranza che diventasse un cane normale. Cosa che, per nostra immensa fortuna, non è mai stato. 

E' stato ai nostri occhi tutti gli animali del mondo. Una lucertola al sole e una gazzella, quando saltava il metro e mezzo di siepe correndo da un cancello all'altro, per abbaiare a un gatto o ad un anziano, categoria da lui sempre ardentemente detestata. E quando saltava la siepe lasciava senza fiato quando, come dice mamma, per un momento restava sospeso nell'aria, le orecchie morbide al vento, l'espressione gloriosa di cane giovane e padrone del suo mondo. E una lepre quando rincorreva altri cani, tutte femmine, sfrecciante intorno alla casa come una meteora. E quando... E quando. Non riesco a quantificare l'amore che provo per lui. Mi sembra impensabile provarci. E allo stesso tempo ricordo con una certa chiarezza ed una dose di panico infantile la volta in cui, entrando nella mia stanza, lo trovai accerchiato dai miei giocattoli. Barbie senza mani, pupazzi sventrati, e una famigliola di quattro delfini segnata dai suoi denti, alcuni senza coda, altri senza occhi. Pensai di odiarlo, poi sono cresciuta e l'ho fatto con lui e quell'episodio all'epoca drammatico è rimasto un aneddoto dai raccontare ai posteri e niente più. Sono cresciuta e Smile ha preso a mangiare le mie foto e i miei biglietti dei concerti. Nulla mi ferì come quel genocidio di giocattoli, lui era già diventato ben più importante del resto. Ci restai invece molto male quando distrusse una pagella della scuola media di Carmine. Rimase miracolosamente intatta la pagina di religione e comunque la trovai una grossa mancanza di rispetto.
Va detto a sua eterna discolpa che io e mio fratello non gliene abbiamo risparmiata nessuna. Raggiungevamo l'apice del nostro sadismo quando inscenavamo delle risse per vedere chi Smile sarebbe arrivato a proteggere. E proteggeva me, con minacciosi ringhi contro Carmine. Il privilegio della più piccola è anche questo.
Smile è stato il nostro cane libero da collari, la nostra ombra e il pensiero eterno nelle nostre innumerevoli partenze. Che avrà provato quel suo cuore tacito nel vederci tante volte fare le valige e andare via? Mi domando quanto e quando abbia sofferto dell'andirivieni familiare, dei viaggi lunghi mesi, del vederci tornare all'improvviso a casa. Non mi rispondo per un senso di colpa che non riesco a trascurare. E che risolvo nell'eterna figura di mia madre, il nostro punto fisso e la pietra miliare di Smile, così stoica nel suo dolore materno, fino all'ultimo respiro. 

E ora mi sento un po' vuota; le immagini che prima scorrevano con facilità si accavallano e diventano come al solito nebulosa di ricordi. Avrò già scritto quello che adesso ho in mente? Sto forse correndo il rischio di ripetermi, in un finale tentativo di catarsi e di espiazione. Nella follia cosciente della non accettazione della fine di una giornata surreale, maledettamente lontana e parigina, che se n'è già andata lasciandone come sempre il posto ad un'altra, senza Smile sulla sua branda che ora so solo immaginare, e io e noi più soli. E tutti sapevamo che stava invecchiando, lo riconoscevamo nella lentezza dei suoi passi, nel corpo come rimpicciolito e spigoloso, nella stanchezza di partecipare ai giochi di Audrey, alle sue puerili, tanto belle, richieste di attenzione. Tutti lo sapevamo e nessuno in cuor suo credo che si sia arreso all'idea. Io meno che mai, con questa stupida scusa della lontananza, con i piedi fuori dall'Italia e un pezzo d'anima lasciato a casa insieme a tanti anni di vita. Io Smile non lo vedevo, se non nelle mie ricomparse opportunistiche, da conquistatrice del mondo che torna ogni tanto a riposarsi; e dunque mi riservavo di sperare. Smile l'ho percepito negli ultimi anni come una parte di me che avrei voluto trascinarmi in uno zaino per il mondo; e ho goduto con lui sprazzi di vita di autentica condivisione. Nessun rimprovero, dal mio primo ritorno dall'università, in un natale di anni fa, era più possibile nei suoi confronti. Era il mio modo per chiedergli scusa per essermene andata, per riaffermare la mia presenza, per fargli sapere che mai sarei stata da una parte diversa dalla sua. E sono passati così i nostri ultimi tre natali e le mie ultime due estati. Con la doppia sorpresa di Fabrizio e di Audrey a riempire ancora le case e le vite. Smile ha visto in Fabrizio un leale capobranco, quando fino ad un attimo prima a comandare era stato indiscutibilmente lui, ed ha accettato Audrey come un grande saggio, le ha concesso una parte dei suoi spazi senza storie, ribellandosi di rado e in momenti di vera non sopportazione. E lei gli ha fatto compagnia con la sua imponenza, quanto era bello vederli dormire insieme, vicini e stretti al termosifone del corridoio, sulle loro coperte usurate e adorate. Quanto era bello tornare a casa e trovarli sul terrazzo. Sempre in attesa, come mi sembrava che Smile avesse aspettato per anni. 
E non riesco a dirmi che è finita, non mi convinco che è l'ora di dormire. Non mi persuade la sveglia di domani se da domani indietro non si torna. Non lo voglio pensare solo, non lo voglio pensare nel vento, con quella rosa del giardino vicina ad una zampa ormai fredda, e che tante spine e radici e terra viva aveva toccato e scavato. Avrei voluto un'occasione ancora, un altro saluto, una carezza alle sue orecchie beige, morbide come quelle di nessun altro cane, al tatto delle mie mani di bambina e ora forse di donna. E fargli fare la faccia del cane esquimese, del cane trasvolatore, del cane pipistrello, del cane con lo chignon. E guardarlo negli occhi già sofferti mentre ancora gli sussurro un ti voglio bene che sa di un addio che non so pronunciare. Mi tormenta l'idea di non averlo salutato per bene alla mia ultima partenza, ed una parte di me non si perdona di averlo lasciato come un oggetto vecchio, alla caccia di un'altra vita da un'altra parte. Avrei bisogno di un'altra possibilità. Forse voglia dell'ennesima conferma del suo amore. Gli umani hanno bisogno di questo, e perciò i cani esistono, pronti a ringraziarci nonostante le nostre mancanze, a perdonarci con uno sguardo o una zampata il nostro altro errore. E quanto sono migliori di noi per questo. E quanto Smile è stato migliore di me. Quanto avrebbe meritato una voce, piuttosto che quell'udito che altro non ha sentito oggi da me che un pianto incessante, una cascata di lacrime, un urlo disperato.


Ilaria


p.s. una dedica per te, poco prima della mia partenza, quasi tre anni fa, per Forlì. 

Smile è una ciambella di pelo  color latte macchiato con poco caffè, è un cane, è una borsa dell’acqua calda. Di inverno, quando il vento umido, tagliente del mare ci viene addosso, quando fa freddo e piove e i nasi diventano rossi e i piedi soffrono ma non rinunciano ad un paio di all star, Smile è l’unico rimedio possibile. La notte, con lui rannicchiato subdolamente ai piedi del letto, non è mai buia davvero, non è del tutto triste, non dà spazio al magone da pensieri irrimediabili, alle ansie, alla paura. Poi Smile si stiracchia, si impossessa delle coperte e le scalda, ti lascia il tuo posto ma esige il suo e se lo prende senza troppa cura. E durante la notte sogna; capita che le sue zampe si agitino in un modo un po’ convulso, magari nell’immaginare spazi sterminati, oppure che russi o sbadigli o che soffi infastidito o impigrito dalla sua stessa stanchezza. All’alba, poi, ti dà il buongiorno  con una zampata sulla spalla, nei casi migliori, su una guancia se hai davvero sfiga. I cani non graffiano volontariamente, ma hanno unghie lunghe, e ogni loro carezza ha la delicatezza di uno squarcio. Essere svegliati da Smile non è piacevole, almeno finchè non apri un occhio, poi l’altro, metti a fuoco e lo vedi. Seduto, col suo muso da segugio mancato a dieci centimetri dalla tua faccia, le orecchie flosce, la bocca piegata in un sorriso perenne, gli occhi pieni, profondi, buoni e la coda a spazzare la polvere del pavimento.