venerdì 23 novembre 2012

Oppure… due righe sulle primarie


C’è molto poco che io mi senta davvero di condividere del modo in cui sono state organizzate queste primarie del centrosinistra e nemmeno ne apprezzo particolarmente il valore. Mi è parso che troppo fosse abbozzato, nelle regole e soprattutto nei contenuti, al punto che per lungo tempo mi è sembrato si trattasse solo di una sorta di congresso popolare, di una resa dei conti  misera all’interno del PD. Figli yuppies, padri che furon sessantottini e in mezzo una donna, Laura Puppato, tanto in gamba quanto sola. 
Nadia Urbinati ha ragione quando sostiene che le primarie sono lo strumento per antonomasia in grado di svuotare la politica di senso, poiché la riducono come nient’altro a una questione di comunicazione e di audience, mettendo in secondo piano la parte attiva della partecipazione politica che è la caratteristica principale di una cittadinanza autenticamente consapevole, oltre che libera.
Ma allora perché andare a votare, nonostante lo spaesamento, nonostante anche la frustrazione?
La mia sensazione è che il prezzo dell’astensionismo in quest'occasione storica sarebbe troppo alto.
"La corsa dei migliori verso la politica è un fenomeno che si produce quando la politica cessa di essere ordinaria amministrazione e impegna tutte le forze d' una società per salvarla da una grave malattia, per rispondere ad un estremo pericolo", scriveva Giame Pintor. E questo è uno di quei momenti, che forze politiche che si definiscano di sinistra e progressiste non possono perdere l’occasione di cogliere. E in momenti così non si può non assumersi la responsabilità di scegliere. Astenersi per sentirsi al di sopra delle parti, per preservare la propria purezza, oggi non ha senso. E’ sporcandosi le mani con la realtà che si dà la propria impronta alle cose e, anche, che si acquisisce il diritto di criticarle. Le elezioni di marzo indicheranno la strada che questo piccolo Paese percorrerà nei prossimi decenni e le scelte da prendere sono tante. La sinistra ha davanti a sé la sfida di ridefinire non solo un programma di politiche pubbliche, ma i contenuti stessi del suo sistema di pensiero di riferimento.
Si tratta, cioè, di ridare senso ai temi, peso alle parole che hanno caratterizzato la sinistra fino agli anni ottanta e che sono state, poi, progressivamente abbandonate sulla scia di una globalizzazione che nel mondo cosiddetto sviluppato sembrava promettere infinito progresso e ricchezza e, in fine, rinnegate quando il crollo del blocco sovietico ha rivelato a un mondo già consapevole ma cieco i drammi del socialismo reale.
La storia dei nostri giorni, però, costringe tutti coloro che ancora hanno gli occhi per vedere a porsi forti dubbi sul senso di uno sviluppo fondato sulla cultura dell’individualismo, dell’egoismo, della corsa alla ricchezza. La crisi ci obbliga a porci il problema delle pari opportunità (senza le quali, per inciso, non ha neppure senso parlare di meritocrazia), delle disuguaglianze, della giustizia sociale, se non per un personale istinto filantropico, almeno perché bisognerebbe tener presente che l’aumento eccessivo delle disuguaglianze sociali rischia di mettere in discussione lo stesso modello democratico.
Scrivere “rischia” è già tardivo, perché non è più da pochi giorni che le estreme destre, con la loro buona dose di nazionalismo e di razzismo hanno ricominciato ad attirare consensi in Europa. E l’appiattimento delle sinistre su posizioni sempre più centriste, lo scimmiottamento ventennale di teorie liberali e liberiste ha avuto certamente un ruolo nel far sentire troppi cittadini sempre più abbandonati e meno rappresentati. Ieri mia madre mi faceva notare, ad esempio, che un contadino calabrese non capirebbe mai come iscriversi alle primarie online, e che un partito che non si pone il problema di far votare un contadino calabrese non è un partito di sinistra. Il suo pensiero non è sbagliato né naif; anzi, coglieva il problema di fondo: l’abbandono di quelle masse di cui pure si rinnega l’esistenza proprio da parte di chi dovrebbe teoricamente rappresentarle. Se è vero che i connotati delle classi si modificano costantemente è pure vero che le classi non hanno mai smesso di esistere. La sinistra dovrebbe impegnarsi a conoscerla questa nuova società, al di là di qualche azione di rappresentanza. Bisogna che si capisca chi sono i nuovi soggetti che la formano, quali sono le loro necessità, quale la loro dimensione esistenziale e in quale modo sia possibile rispondere ai loro bisogni, al di là di qualche frase ad effetto e del sentimentalismo nostalgico delle grandi occasioni. Quest’analisi non può prescindere dalla presa di coscienza che i temi della subordinazione, dell’efficacia dei diritti per tutti, per quanto abbiano assunto connotati nuovi e siano tristemente passati di moda, devono tornare ad essere affrontati senza remore e senza paura. Altrimenti anche i temi dei doveri, delle responsabilità individuali, almeno altrettanto necessari, perdono completamente senso.
In questi anni su questo piano il Partito Democratico ha fallito, bloccato dallo sterile dibattito al suo interno che si risolve sempre in una specie di sfida alla lottizzazione tra correnti per la monopolizzazione della linea politica; ha fallito perché ha voluto fingere di essere nato senza storia, di essere di tutti finendo per essere di nessuno; ha fallito perché non è stato in grado di elaborare una linea chiara in nessuno dei grandi ambiti della politica nazionale, dall’economia alla politica estera. Il Partito Democratico non solo non ha un programma ma, peggio, sembra non avere un progetto. E in effetti è difficile che si riesca ad avere una progettualità rivolta al futuro se non si è ancora in grado di fare i conti con il proprio passato. Pier Luigi Bersani ha sostenuto che in un ipotetico Pantheon politico metterebbe Giovanni XXIII. Questo dà il senso dello smarrimento, e anche dell’assurdo del dibattito attuale. È banale quanto lecito domandarsi quale lezione abbia colto dalla propria storia un uomo che si è formato politicamente nel Partito Comunista che in quel periodo fu di Ingrao, di Amendola, soprattutto di Berlinguer e per quale ragione reputi necessario svincolarsi da quella storia con tanta superficiale noncuranza.
In Francia un Pantheon ce l’hanno sul serio e, in tutta la sua grandezza, nella sua magnificenza neoclassica, conserva le spoglie dei suoi Voltaire, Rousseau, Jaurès. Quel socialista, quell’umanista di Jaurès.
Per queste sparse ragioni e anche per una mia opposizione, diciamo, ontologica, all’esistenza stessa del Partito Democratico, su cui non mi dilungherò, ho capito che sostenere uno dei suoi candidati sarebbe, per me, o impossibile (nel caso specifico di Renzi) o uno sforzo troppo grande, almeno in questa prima fase. Non sempre, o quasi  mai, il cambiamento si fa davvero dall’interno.
Non sempre, o quasi mai, si vota sulla scia di considerazioni di réal-politique.

Oppure, Nichi Vendola.
Con molti dubbi, con il timore di un’altra delusione,
Ilaria