martedì 30 aprile 2013
mercoledì 24 aprile 2013
Ventate di marxismo e ottimismo liberale
E' stata una giornata lunga. Diciamo pure che io ho deciso di allungarla ulteriormente andando ad assistere a un incontro con Fausto Bertinotti nell'aula più sindacalista della Facoltà d'Economia più neoclassica d'Italia. Una contraddizione in termini.
L'incontro, che doveva accendere un dibattito sui destini della sinistra dall'Università di Bologna all'Italia intera si è presto rivelato una lezione, a tratti un comizio. Il compagno Fausto, dal canto suo, è uomo di cultura e d'esperienza e sa farsi ascoltare. In pochi minuti, a seguito di una mesta domanda posta dal giovane mediatore al solo fine di spingerlo a parlare della situazione attuale, si è tolto gli occhiali troppe volte, se li è messi in mano, in testa, sulle sopracciglia in un equilibrio al limite estremo tra fisica e metafisica, poi li ha sbattuti sul tavolo, nemmeno fossero di gomma. E intanto ha sciorinato i più grandi nomi del pensiero politico del Novecento, colpendomi in pieno sul sentimento e mettendo a dura prova la mia parte razionale e critica.
E' difficile stare vigili di fronte a una retorica così ricca di cultura e intransigenza. Ci si sente conservatori nell'anima, reazionari vili e statici democristiani, in un miscuglio letale di autocommiserazione. Si è talmente presi dal discorso da perderne il senso a tratti senza mai distrarsi dall'ampiezza del respiro che lo muove e quel fascino subìto fa un po' perdere di lucidità. Poi sono tornata in me. E mi sono resa conto che tra tutti i temi che "Fausto" ha trattato ne mancava uno che per me è centrale, di cui dirò tra poco.
Benché il Nostro abbia attraversato di buona lena lo scibile politico tutto, dal nuovo movimentismo alla critica verso la classe politica, dal rovesciamento del conflitto di classe alla storia del PCI, dalle Costituzioni liberali a quelle democratiche passando per l'involuzione liberista della politica economica negli ultimi vent'anni, la sua argomentazione si è arenata su un punto, direi Il punto e cioè: Che fare?
E' la domanda più ricorrente e meno banale, quella che costringe pure i più grandi amanti dei voli pindarici a tornare coi piedi per terra e capire che bisogna pur dare sostanza alle proprie gloriose aspirazioni di giustizia e di progresso. La pecca del discorso di Bertinotti stava nell'aver evitato di delineare la parabola politica dell'Italia dal dopoguerra ad oggi, inserendola nel contesto della costruzione europea.
Il suo discorso, che muoveva da un'analisi dell'evoluzione della "Costituzione materiale" rispetto a quella "formale", con particolare riferimento ai temi del lavoro e della legittimazione del potere politico, si limitava ad una specie di comparazione tra il momento dell'approvazione della Costituzione del 1948 e la situazione politica attuale. Messa in questi termini e con il giudizio mediato non dalla storia ma dalla cronaca, è ovvio che ogni lettura diventa in breve tempo una critica morale, un confronto di valore tra la classe dirigente di allora e quella di oggi. Tale confronto è certo necessario, se non altro per rendersi conto dei picchi e degli abissi che possono raggiungere la ragione e la dignità umana; ma porre il problema in termini etici elimina la Storia dall'analisi e dunque, di fatto, impedisce di capire quali motivi (e dunque le responsabilità di chi) ci hanno portati dove siamo oggi.
Ora, Bertinotti si è fermato molto a dibattere del ruolo svolto dall' Unione Europea nell'acuire crisi già profonde in certi Paesi (Grecia e Italia in primis) e, in particolare, dell'assurdo di una sovranità monetaria che sovrasta la sovranità popolare. Parole vere e bellissime, ma che non spiegano come l'Unione Europea sia diventata ciò che è oggi. Il ruolo svolto dai suoi organi (e non solo) dal momento in cui si è iniziato a parlare di crisi del debito sovrano non è solo dettato dalla contingenza, ma soprattutto frutto di scelte politiche passate fatte dai governi dei paesi membri; in gran parte si è trattato di errori di miopia e sottovalutazione di ciò che l'unità economica avrebbe comportato e dell'importanza di un' unità politica che la controbilanciasse. Il Bertinotti che accusa l'UE di essere un cumulo di trattati è come se perdesse di vista che quei trattati li hanno siglati dei governi, ovvero degli Stati, ovvero degli uomini politici. In un certo senso, nel costruire l'Europa unita la politica ha abdicato al suo ruolo: nel tentativo di garantirsi una sovranità nazionale fittizia, ha finito per essere irrilevante sul piano che, nel mondo dei grandi potentati globali, determina gli altri, cioè quello mondiale. Il fallimento degli stati si trascina dietro il fallimento della politica nel senso che rispondere a mutamenti economici transnazionali con provvedimenti nazionali è o difficile o impossibile. Ma di spostare la sovranità ad uno Stato più alto non se n'è parlato ed oggi solo torna di moda il sogno dell'Europa federale, ma nemmeno troppo.
Insomma, mentre "Fausto" parlava della Troika e dei mercati e del cinismo della finanza io mi sono chiesta tra quanto tempo una sinistra incerta e pure nostalgica di certi internazionalismi d'antan, riprenderà un discorso internazionalista sul serio. Quando, cioè, capirà che per difendere il lavoro in Italia non bastano misure microscopiche elaborate ad hoc per rispondere a certe esigenze ma serve un discorso più ampio che includa la difesa del lavoro anche altrove, che arrivi almeno all'Europa attraverso un dialogo serrato con le sinistre degli altri Paesi e che allora, in modo unitario, potrà incidere davvero sulle decisioni politiche. Per fare questo bisognerà rinunciare al sempre ripudiato e mai sopito nazionalismo.
Bertinotti diceva che lo Stato Sociale figlio delle costituzioni del dopoguerra era un compromesso tra capitale e classi lavoratrici. Oggi quel dialogo non esiste, sostituito com'è da una costrizione che si esercita attraverso imposizioni apparentemente tecniche e invece orientate politicamente in difesa dei grandi interessi economici. Posso condividere e aggiungerei, però, che ciò è dovuto al fatto che ai livelli a cui il "capitale", per usare il suo lessico, opera, questo non ha interlocutori né oppositori e dunque monopolizza il potere. Se le forze progressiste si uniranno, però, e spingeranno nel senso di un'Europa largamente democratica e federale, credo che allora i rapporti di potere potranno essere diversi e l'opera dei governi potrà smettere di essere "octroyée", la democrazia potrà smettere di essere liberamente interpretata in senso più o meno paternalista e la difesa degli interessi dei cittadini, soprattutto dei lavoratori, potrà ricominciare ad avere un senso e un seguito in termini di azioni pratiche.
E' sempre emozionante inneggiare alla pacifica fusione di tutti i movimenti di protesta, invocare i barbari di cui Marcuse parlava nel Sessantotto, spingere a una ricostruzione della politica come vita quotidiana, come impegno di tutti i giorni e come scelta. Ma accanto a questo deve innescarsi, credo, un discorso più ampio che abbracci l'orizzonte nel quale ci muoviamo, questo vecchio continente di nuovo azzoppato, ovvero l'Europa.
In alternativa possiamo lamentarci del decisionismo illegittimo della BCE e sentirci molto puri.
Ilaria
L'incontro, che doveva accendere un dibattito sui destini della sinistra dall'Università di Bologna all'Italia intera si è presto rivelato una lezione, a tratti un comizio. Il compagno Fausto, dal canto suo, è uomo di cultura e d'esperienza e sa farsi ascoltare. In pochi minuti, a seguito di una mesta domanda posta dal giovane mediatore al solo fine di spingerlo a parlare della situazione attuale, si è tolto gli occhiali troppe volte, se li è messi in mano, in testa, sulle sopracciglia in un equilibrio al limite estremo tra fisica e metafisica, poi li ha sbattuti sul tavolo, nemmeno fossero di gomma. E intanto ha sciorinato i più grandi nomi del pensiero politico del Novecento, colpendomi in pieno sul sentimento e mettendo a dura prova la mia parte razionale e critica.
E' difficile stare vigili di fronte a una retorica così ricca di cultura e intransigenza. Ci si sente conservatori nell'anima, reazionari vili e statici democristiani, in un miscuglio letale di autocommiserazione. Si è talmente presi dal discorso da perderne il senso a tratti senza mai distrarsi dall'ampiezza del respiro che lo muove e quel fascino subìto fa un po' perdere di lucidità. Poi sono tornata in me. E mi sono resa conto che tra tutti i temi che "Fausto" ha trattato ne mancava uno che per me è centrale, di cui dirò tra poco.
Benché il Nostro abbia attraversato di buona lena lo scibile politico tutto, dal nuovo movimentismo alla critica verso la classe politica, dal rovesciamento del conflitto di classe alla storia del PCI, dalle Costituzioni liberali a quelle democratiche passando per l'involuzione liberista della politica economica negli ultimi vent'anni, la sua argomentazione si è arenata su un punto, direi Il punto e cioè: Che fare?
E' la domanda più ricorrente e meno banale, quella che costringe pure i più grandi amanti dei voli pindarici a tornare coi piedi per terra e capire che bisogna pur dare sostanza alle proprie gloriose aspirazioni di giustizia e di progresso. La pecca del discorso di Bertinotti stava nell'aver evitato di delineare la parabola politica dell'Italia dal dopoguerra ad oggi, inserendola nel contesto della costruzione europea.
Il suo discorso, che muoveva da un'analisi dell'evoluzione della "Costituzione materiale" rispetto a quella "formale", con particolare riferimento ai temi del lavoro e della legittimazione del potere politico, si limitava ad una specie di comparazione tra il momento dell'approvazione della Costituzione del 1948 e la situazione politica attuale. Messa in questi termini e con il giudizio mediato non dalla storia ma dalla cronaca, è ovvio che ogni lettura diventa in breve tempo una critica morale, un confronto di valore tra la classe dirigente di allora e quella di oggi. Tale confronto è certo necessario, se non altro per rendersi conto dei picchi e degli abissi che possono raggiungere la ragione e la dignità umana; ma porre il problema in termini etici elimina la Storia dall'analisi e dunque, di fatto, impedisce di capire quali motivi (e dunque le responsabilità di chi) ci hanno portati dove siamo oggi.
Ora, Bertinotti si è fermato molto a dibattere del ruolo svolto dall' Unione Europea nell'acuire crisi già profonde in certi Paesi (Grecia e Italia in primis) e, in particolare, dell'assurdo di una sovranità monetaria che sovrasta la sovranità popolare. Parole vere e bellissime, ma che non spiegano come l'Unione Europea sia diventata ciò che è oggi. Il ruolo svolto dai suoi organi (e non solo) dal momento in cui si è iniziato a parlare di crisi del debito sovrano non è solo dettato dalla contingenza, ma soprattutto frutto di scelte politiche passate fatte dai governi dei paesi membri; in gran parte si è trattato di errori di miopia e sottovalutazione di ciò che l'unità economica avrebbe comportato e dell'importanza di un' unità politica che la controbilanciasse. Il Bertinotti che accusa l'UE di essere un cumulo di trattati è come se perdesse di vista che quei trattati li hanno siglati dei governi, ovvero degli Stati, ovvero degli uomini politici. In un certo senso, nel costruire l'Europa unita la politica ha abdicato al suo ruolo: nel tentativo di garantirsi una sovranità nazionale fittizia, ha finito per essere irrilevante sul piano che, nel mondo dei grandi potentati globali, determina gli altri, cioè quello mondiale. Il fallimento degli stati si trascina dietro il fallimento della politica nel senso che rispondere a mutamenti economici transnazionali con provvedimenti nazionali è o difficile o impossibile. Ma di spostare la sovranità ad uno Stato più alto non se n'è parlato ed oggi solo torna di moda il sogno dell'Europa federale, ma nemmeno troppo.
Insomma, mentre "Fausto" parlava della Troika e dei mercati e del cinismo della finanza io mi sono chiesta tra quanto tempo una sinistra incerta e pure nostalgica di certi internazionalismi d'antan, riprenderà un discorso internazionalista sul serio. Quando, cioè, capirà che per difendere il lavoro in Italia non bastano misure microscopiche elaborate ad hoc per rispondere a certe esigenze ma serve un discorso più ampio che includa la difesa del lavoro anche altrove, che arrivi almeno all'Europa attraverso un dialogo serrato con le sinistre degli altri Paesi e che allora, in modo unitario, potrà incidere davvero sulle decisioni politiche. Per fare questo bisognerà rinunciare al sempre ripudiato e mai sopito nazionalismo.
Bertinotti diceva che lo Stato Sociale figlio delle costituzioni del dopoguerra era un compromesso tra capitale e classi lavoratrici. Oggi quel dialogo non esiste, sostituito com'è da una costrizione che si esercita attraverso imposizioni apparentemente tecniche e invece orientate politicamente in difesa dei grandi interessi economici. Posso condividere e aggiungerei, però, che ciò è dovuto al fatto che ai livelli a cui il "capitale", per usare il suo lessico, opera, questo non ha interlocutori né oppositori e dunque monopolizza il potere. Se le forze progressiste si uniranno, però, e spingeranno nel senso di un'Europa largamente democratica e federale, credo che allora i rapporti di potere potranno essere diversi e l'opera dei governi potrà smettere di essere "octroyée", la democrazia potrà smettere di essere liberamente interpretata in senso più o meno paternalista e la difesa degli interessi dei cittadini, soprattutto dei lavoratori, potrà ricominciare ad avere un senso e un seguito in termini di azioni pratiche.
E' sempre emozionante inneggiare alla pacifica fusione di tutti i movimenti di protesta, invocare i barbari di cui Marcuse parlava nel Sessantotto, spingere a una ricostruzione della politica come vita quotidiana, come impegno di tutti i giorni e come scelta. Ma accanto a questo deve innescarsi, credo, un discorso più ampio che abbracci l'orizzonte nel quale ci muoviamo, questo vecchio continente di nuovo azzoppato, ovvero l'Europa.
In alternativa possiamo lamentarci del decisionismo illegittimo della BCE e sentirci molto puri.
Ilaria
sabato 20 aprile 2013
Comiche all'italiana o della tragicità della politica
L’elezione del Capo dello
Stato è il momento più alto e solenne della vita repubblicana, ed in
questi giorni si è trasformato nell’ennesimo teatrino dell’assurdo, o del
grottesco .
Sono tornati alla ribalta
i fantasmi più grigi della peggiore Seconda Repubblica e i metodi più loschi
della Prima, i più invertebrati arrampicatori sociali e i più andreottiani dei
redivivi democristiani, establishment
reazionario, cinici d’alemiani ed
ipocriti separatisti, nani e ballerine; tutti uniti dall’istinto di
autoconservazione di una classe politica di inetti, di ignoranti, nascosto
sotto il sostantivo più altisonante e sbeffeggiato: la Responsabilità.
Non sanno loro, questi uomini
piccoli, che la Responsabilità è quella di Tocqueville, di Kant, di Panagulis: la responsabilità di rispondere ai propri
doveri, dettati sempre da una morale disinteressata, universale e autonoma; la
responsabilità di fornire giustificazioni al proprio agire libero,
indipendente, intellegibile; la responsabilità di prendere posizione, delle
scelte di cui si porta il peso, come una croce, a testa alta.
Li guardo sfilare uno dopo l’altro e li
ascolto esprimersi nel loro modo banale, con frasi piatte, insensate, piene di
metafore quanto prive di subordinate, come se le immagini che evocano
servissero a riempire il vuoto miserabile dei contenuti, a nascondere ancora
l’irrazionalità delle loro scelte.
Ha sbagliato Giorgio
Napolitano ad accettare di farsi rigettare nella mischia di una politica sorda
ai problemi della gente e sempre pronta a rifugiarsi nella sua autoreferenzialità,
nel realismo apparente che è solo incapacità di decidere. Mi chiedo quale
sentimento o quale logica l’abbia mosso, al di là della convinzione, figlia di
una lettura di questa fase storica che non mi sento in alcun modo di
condividere, della necessità di un nuovo compromesso storico, l’incubo dell’esacerbarsi
di una crisi sociale che però proprio questa classe politica, la sua
mediocrità, le sue scelte scellerate stanno contribuendo a fomentare. Profezie che si autoavverano.
La democrazia è altro dai
simposi di saggi rinchiusi a tessere le trame di un futuro migliore secondo la
loro apparente oggettività e sommessa ideologia; altro dai governi tecnici a
tempo indeterminato; altro, soprattutto dall’unanimità che nasconde il
compromesso, il baratto, la collusione. E’ il senso della democrazia come
chiarezza delle procedure – quella di un certo Bobbio - che in questi giorni
stiamo smarrendo mentre ci arrotiamo in dinamiche tragicamente decisioniste e
paternalistiche. Ed ecco l'apice della crisi.
Ed è quando la politica
diventa autistica che un periodo di
crisi, che dunque per sua stessa natura
poteva essere di apertura, di rinnovamento, di progresso si trasforma
nell’ennesima fase di conservazione. Ma l’Italia fuori dal Palazzo, a pochi
metri dal grande Transatlantico di cui parlano con una certa vezzosa tenerezza
i giornalisti borghesi, è una pentola a pressione, dove pure i più fedeli
giovani democratici occupano le sezioni e forse si ricordano di Gramsci, di
Contessa, della retorica pomposa ma autentica delle anime belle, tanto
necessarie e tanto vilipese da certi Massimo D’Alema.
L’Italia transennata
fuori da Piazza Montecitorio aspetta indolente e rabbiosa insieme, ed ha la
faccia pensionati, dei commercianti, degli operai, dei trentenni in eterna
attesa, della generazione dei miei ventenni perduti, che vanno a piangere tra le braccia di un comico,
cercando una risposta al loro sdegno nell’ennesimo imbonitore lasciato indisturbato
a prendersi cura della disperazione dei poveracci e dei disillusi che sono
sempre di più, che siamo tutti noi.
Ilaria
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