Andarsene dove, con
cinque euro di benzina?
Gli irrequieti si pongono
queste domande, se le pongono gli idealisti, i provinciali. Loro, poi, si
chiedono sempre dove andare per trovare il mondo, abituati –e costretti- come
sono, a confrontarsi con una realtà piccola piccola; provinciali che conoscono
come le proprie scarpe i muri vecchi di città invisibili, le scritte con le
bombolette su casermoni logori, la solita birra del bar vicino casa, i cani
randagi a cui hanno dato un nome…
E forse è l’abitudine a
quei posti risaputi e usuali, o forse è quella sensibilità tutta umana che
chiamiamo curiosità, a spingerli a
cercare altro, un luogo che risponda alle loro domande, o dove almeno qualcuno
sappia fare il caffè.
Questo cerca Matteo, un
posto altro dove non ci siano baristi che
hanno fatto corsi di barman ma che poi ti fanno una chiavica di caffè che
dovresti solo sbatterglielo in faccia; e in questo desiderio tanto terreno
c’è una voglia di volare ad alta quota, di andarsene a vedere le cose da
lontano così che appaiano più chiare o pacificate, chissà. Ed Emanuele, tramite
Matteo e con lui, va a cercare quella medesima libertà.
Così, la scoperta triste
del progetto dell’Alfa di fabbricare un SUV diventa una scusa decente per
mettersi in macchina e andare… Dove? Altrove…
Ed eccoli là, quattro amici che si sanno a memoria, tutti e quattro e ciascuno a suo modo di una malinconia sghemba, in una macchina con cinque euro di benzina, Paolo Conte come necessario sottofondo.
Ma dove ve ne andate se dietro di voi ci sono le montagne e gli alberi morti per vecchi roghi estivi e il neon della statua del Cristo Redentore? Dove ve ne andate se davanti a voi c’è il mare, quello in cui si è perso il vostro sguardo, il mare grande da scrutare, mare lontano che piace immaginare libertà e che invece è limite invalicabile, compagno e confine, che spalanca la vista e impone orizzonti finiti?
A questo non pensano mentre vanno, mentre scivola come una ninnananna nelle orecchie Genova per noi che stiamo in fondo alla
campagna… Vanno e basta. Vanno a Sperlonga, sulla spiaggia, a Itri, a domandarsi
in silenzio chi sono, a lanciare i sassi nel mare, a saltare dai gradini e a
dormicchiare sulle panchine sotto un tramonto rosa. Soprattutto, con romantica superbia, vanno a
chiedere il cielo di togliersi il cappello davanti alle loro gioiose ambizioni,
davanti alla loro profondità.
E mentre il motore gracchia,
mai nominato apertamente è il senso del viaggio, il dilemma di sempre, ad
aleggiare sullo sfondo. Perché scappare, e da cosa, se poi in fondo il caffè
non era male, se poi c’è una bellezza immensa, anche, nelle cose piccole? Che
senso ha cercare spasmodicamente la grandezza, se poi la grandezza sta nel
cogliere la meraviglia nei fatti che ci capitano, nelle persone che ci
circondano, nei rapporti sinceri, negli sguardi complici, nei desideri comuni?
E se tutto il meglio fosse già qui?
Quella dei ragazzi nella
macchina col serbatoio in riserva non è arrendevolezza ad un presente dato, ad
un futuro scontato. Il loro non è provincialismo. Il loro sguardo è quello
vispo di chi ha guardato il mondo, si è sforzato di capirlo e forse ne ha colto
l’inganno e a quell’inganno si rifiuta di soggiogarsi e così si ostina a vivere per
com’è, a schiena dritta e come desidera, senza imporsi altro al di là di un buon caffè.
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Ilaria
Grazie a te ho una barca da scrivere
ho un treno da perdere
ho un treno da perdere
p.s. Lettori, miei cari, cliccate su questo link( La Comédie d'un Jour, vincitore del Corto Moak 2013 )per guardare un cortometraggio che dura quanto due canzoni di Guccini, o quattro canzoni di qualunque autore normale. Sono tredici minuti di cui non vi pentirete, se vi andrà.