domenica 7 agosto 2016

C'era una volta in America

Passate le mie prime ventiquattro ore a Boston, mi arrogo il diritto di fare una di quelle cose per cui vado pazza: il bilancio.

Avrei voluto farlo prima di partire, in realtà. Avrei voluto scrivere a molte persone moltissime cose e trovare il tempo per pensare regali più belli, poi prendermi un altro tempo per razionalizzare la partenza da Bologna, scattare magari una foto a Piazza Maggiore, con la luce caldissima e netta che c'era l'ultima volta in cui l'ho vista prima di andar via, e tatuarmi addosso l'atmosfera vitale e la mania che tutto sia collettivo, che nonostante le ingiurie del tempo e di una certa politica la città conserva ancora.

Avrei anche voluto parlare di Formia, di come mi sembra di essermi ripresa il mio rapporto con la città, recuperando tracce di passato e riscoprendo l'allegria che si prova nel ridere di quegli aspetti caratteristici del posto in cui si è nati che forse ci si è lasciati alle spalle, ma che in fin dei conti ci appartengono profondamente. Oggi che non scappo da nessuna parte, oggi che vado verso e non via da, mi sento come ricongiunta con me, con il mare guardato sempre in faccia e con i lavori pubblici, con il traffico infernale dell'Appia e con lo spettacolo dell'Ariana e con le birre bevute nei posti conosciuti da sempre. 

E con tutti questi condizionali passati alla fine non ho scritto niente, forse i pensieri erano troppi e confusi e mischiati in un sacco di anni e in uno in particolare, questo, densissimo e irriducibile. Non ho scritto niente e ho portato via poco, peraltro pentendomi di non essermi portata dietro più romanzi dei tanti che già a forza ho infilato in valigie troppo pesanti. Guardando la mia libreria, mi ritrovavo a fissare, nei giorni dei preparativi selvaggi, Un'Isola, L'Isola riflessa e L'Isola di Arturo. Li ho mollati dov'erano, colpevoli di essere stati già letti e forse pensando che fosse un cliché troppo usurato, quello della persona che parte e senza un minimo di modestia si immedesima in tutti gli Ulisse del mondo e della Storia, e in infiniti nomadi, viandanti e marinai. Ma io, che come dice qualcuno sono nata col mare in faccia, nuoto con pessimo stile e metto nelle valigie i fiori finti e i biglietti che altri hanno scritto per me e un sacco di scarpe inadatte ai percorsi lunghi. E ho un padre che pedissequamente mi accompagna ai check-in degli aeroporti e che, con un oceano in meno da attraversare e forse con in meno anche qualche anno, ci scommetto che mi avrebbe proposto di trasferirmi a Boston facendo il trasloco in auto, come in effetti accadde quando per un po' di mesi andai a vivere a Parigi. Per cui non sono nomade né viandante né marinaio, con buona pace delle etichette romantiche che tanto mi piacciono; sono come i tanti che per i motivi più vari ogni tanto cambiano il posto in cui vivono, e fine della storia. 

Capita così che, in questa specie di normalizzazione forzata della partenza, fatta di pochi saluti rituali sulle porte o alle portiere, e di un sacco di ingiustamente rapidi ciao dispensati nei parcheggi o alle fermate degli autobus, davanti a un tabacchi, in un ufficio postale, o in una coda ai controlli dell'aeroporto di Fiumicino, la realizzazione della portata dell'evento ti cade in testa nei modi più strani. Nel mio caso, confesso, il colpo di grazia me l'ha dato ascoltare Calcutta che canta che presterà i suoi soldi a qualcuno per andarlo a trovare. Per quanto mi faccia uno strano effetto piangere per una canzone che in un verso recita "vestiti da Sandra che io faccio il tuo Raimondo", la storia dei soldi rende conto della distanza, e dunque fa breccia. Uno realizza quanto è lontano quando si accorge di stare in un posto in cui non atterra Ryanair, dove la valenza della Carta di Identità Italiana è drammaticamente prossima allo zero e in cui, alla frontiera, dimostrare di essere una persona a modo non è per niente una formalità. Così, con tutti i politically-correttissimi distinguo, pensando a quanta gente vorrei prestare dei soldi per venirmi a trovare, quando in preda al jet-leg ieri mattina (come anche oggi) mi sono alzata alle quattro e, non riuscendo ad addormentarmi, sono andata in balcone a fumare, mi sono sentita un po' esule. 

Per evitare di crogiolarmi nella strana stanchezza del volo e in innumerevoli malinconie, ho allora messo in atto le mie solite strategie di sopravvivenza: togliere i libri dalla valigia, posizionarli su un comodino di fortuna. In pratica ricostruirmi il nido. E poi sono andata a cercare un posto in cui consumare Il Sacro Pasto, ovvero la colazione. A quel punto, bevendo un cappuccino che poteva essere considerato "regular" solo con le categorie dimensionali di un vatusso e mangiando con una certa goduria un pain au chocolat altrettanto gigante e probabilmente fatto di solo burro, è finalmente iniziata la mia prima giornata bostoniana. Ne ho ricavato una serie di considerazioni che elencherò qui. 

1- Ad una prima impressione, questi americani sono gente simpatica. Mi chiedo se non siano consapevoli di quanto ti fanno penare per toccare il loro stesso suolo, da muoversi a pietà una volta che ce l'hai fatta. Comunque... abituata a tante inutili spocchie nazionaliste, regionaliste e comunali, tipiche di ogni pertugio d'Europa, mi sono ritrovata per mezza mattina ad aggirarmi nei posti parlando come se dovessi scusarmi di esistere. Senza senso ho ricavato sinceri complimenti dal barista di turno per la fattura del mio zaino di pelle; vive scuse se mi chiedeva di ripetere ciò che avevo detto da un pover'uomo a cui avevo chiesto, senza farmi capire, indicazioni stradali; risposte casuali a domande che non avevo posto, forse date in un tentativo estremo di non farmi pesare il fatto che devo migliorare il mio Inglese; parecchi "how are you doing today"e welcome to the United States, in Town, in the Neighborhood, a seconda della situazione; in generale, direbbe Nicoletta, sorrisoni.

2- La questione del rapporto di questo Paese con il fumo è dirimente, ma in fondo fino a un certo punto. Posto che ogni casa è dotata di rilevatori anti-incendio e che è strictly forbidden fumare nei parchi pubblici, per il resto fumare si può. La condizione per farlo è essere disposti a tollerare il biasimo, anche abbastanza civile e silenzioso, delle persone che per strada ti lanciano occhiate piene di giudizio e di voglia di redimerti dal tuo orrido vizio. Ci sono poi alcune zone franche: agglomerati di panchine su marciapiedi larghissimi, dove ogni tanto qualche poverello come me si siede e fuma, conscio di poterlo fare per via del segnale chiaro dato dalle cicche di sigaretta già in terra. Nel resto della città le cicche non esistono. Ad ogni modo, io le mie cicche le buttavo nel pacchetto vuoto di filtri rizla che mi sono portata con tanto zelo appresso per tutto il giorno, e che mi ha appestato lo zaino di pelle suddetto.

3- Ed eccoci alla seconda zona franca. Il North End, in quanto (gigantesco) quartiere italiano, è una specie di isola felice in cui chiunque fuma ovunque con buona pace dei passanti puritani, si paga solo in contanti e si festeggiano le feste dei santi. Ieri c'era tutta una fiera di Sant'Agrippina, con tanto di bancarelle di fried calamari, luminarie su Hanover Street e palco per il cantante neomelodico-americano di turno. Il North End è italiano davvero, e largamente terrone, dunque Sant'Agrippina è un fatto serio e le feste popolari(a breve quella di Saint Anthony from Padua de Montefalcione), amatissime dai veri yankee e dai turisti, sembrano proprio un disperato tentativo di recuperare le proprie radici. Così come lo sembra il libro "La cucina di Gaeta", illustratomi dall'amabile proprietaria di una piccola libreria italo-americana di quella zona, dove ho comprato la Settimana Enigmistica e mi è stato offerto un caffè che non era male, nonché cibo, accoglienza, numeri di telefono nel caso io voglia fare delle chiacchiere... Parlando con Lisa e notate le sue premure, ho fatto pace con l'idea che potrei avere dei momenti di cedimento. E sapere di avere una specie di casa-famiglia in cui sono stata accolta con tanto fasto, piena di libri di Camilleri e di Elena Ferrante, mi piace molto. Se mi viene da piangere vado da I Am Books. E tornerò a Little Italy ogni tanto, ho il dubbio fondato che potrei avere bisogno di pasta De Cecco e biscotti Doria, diciamo una volta ogni paio di mesi.

4- Boston è intimamente convinta di essere una piccola città, il che è vero considerando che il centro storico si gira a piedi senza alcuna fatica, ma la vita vera si snoda nei sobborghi, ex cittadine ormai inglobate nel tessuto urbano fino a farne parte completamente. Nonostante ciò, Boston praticamente non ha una metropolitana. O meglio, quella che loro chiamano metro è in realtà un tram di due vagoni, che nell'approssimarsi al centro scende sotto terra. Il mitico bus 14 da non so dove a Pilastro, che passava sotto casa mia a Bologna, è nettamente più grande dei treni della Green Line. Chissà quanto avrebbero da ridire i miei bolognesi sui trasporti di Bostonia. Comunque, di tram ne passano a fiotti e il fatto che siano piccoli e in fondo lenti mi trasmette un senso di umanità che non mi dispiace.

5- Boston è anche intimamente convinta di essere una città di mare, che poi è vero. E' una città di fiume, di laguna e di Oceano: la geografia fisica americana è delirante. Pertanto la zona del Waterfront, quello che possiamo chiamare il gigantesco lungomare o il molo, è piena di bei palazzi col tetto piatto e larghi balconi imbastiti di tavolini in ferro battuto e piantine di rosmarino. Mi domando che fine facciano le piantine e gli stessi balconi, nei lunghi inverni di neve e di ghiaccio. Mi domando anche come si faccia a usare un balcone se il tuo appartamento è al 24esimo piano, ma questo è perché soffro le vertigini. Comunque nel Waterfront ho già trovato un paio di papabili case della mia vita per il giorno in cui avrò dei soldi.

6- Gli unici convinti che Boston sia grande sono i turisti tedeschi, che infatti apprezzano girare la città su enormi autobus aperti che però non sono autobus ma strani veicoli a forma di imbarcazioni d'assalto con sotto delle ruote. Chiccherie.

7- Per un mendicante, che solitamente è semplicemente un disoccupato a cui è andata particolarmente male, la strategia vincente per ottenere fondi consiste nel minacciare, verbalmente o per iscritto, di votare Trump in caso di mancata offerta. Se poi lo fa piazzandosi sotto il balcone da cui per la prima volta nella storia è stata letta la Dichiarazione di Indipendenza, allora restare impassibile per un chicchessia viaggiatore europeo diventa impossibile.

8- Il trash non ha confini e come i centurioni davanti al Colosseo, qui si potranno osservare esemplari di guide turistiche travestite da Sons of Liberty o da Padri Pellegrini che girano per strada in abiti settecenteschi senza che la loro autostima faccia una piega. Sullo stesso tema, vedrai circa 23 damigelle attraversare la strada a gruppi di 4/5 per volta, tutte con lo stesso abito allo stesso matrimonio. 

9- Niente dà la sensazione di stare in America quanto: i mattoni rossi, le finestre che si aprono facendole scorrere verso l'alto, i dipendenti che fanno pausa nei retrobottega e quei vicoletti senza uscita tra un palazzo e l'altro, con le scale antincendio e i bidoni del rusco e il fumo che esce dalle cucine dei ristoranti, che in un attimo sembra di stare in C'era una volta in America o in Colazione da Tiffany, a seconda dell'ispirazione del momento.

10- Di tutti i patrioti che da Boston hanno fatto esplodere la Guerra di Indipendenza, il più venerato è il tizio che partì da casa sua a cavallo per avvisare dell'arrivo dell'esercito britannico. Credo si chiami Peter Merere o qualcosa di simile e faceva l'incisore.

11- In effetti gli hamburger sono buoni.

12- Il senso di questi americani per le misure è per me ignoto. Perché ad esempio, deve esistere una moneta da 25 centesimi, ovvero da "quarter of dollar"? Poiché non riconosco le monete, continuo ad accumularne e a pagare la qualsiasi con banconote da 10.

13- Farmacie grandi come supermercati con insegne enormi, café fuori misura, palestre a sei piani, negozi sportivi immensi. Ma non troverai un supermercato. Forse, nel tuo quartiere c'è un grocery store, dove entrerai per fare un minimo di spesa e dove, guardando l'extra virgin olive oil di Zio Franco, che comprerai pure se sembra e forse è olio di semi, avrai il tuo primo, inaspettato crollo. I grocery stores sono anche loro strani e non tanto perché la pasta in vendita è fatta col grano tenero, queste sarebbero osservazioni per soli italiani, ma perché ti domandi quali prodotti tra tutte le incomprensibili pappette e i pudding precotti un americano standard comprerà per nutrirsi. Insomma, perché i frigo pullulano di bevande di ogni genere e il banco verdura è composto da 4 pomodori, 1 pianta di insalata e 3 peperoni verdi? E perché mezzo chilo di riso costa 4 dollari? E perché ci sono una ventina di tipologie di patatine fritte in busta e quando si tratta di biscotti, di fronte a te, la miseria? La mia prima esperienza all'alimentari, nonostante la festa-festona che mi ha fatto il proprietario vedendomi entrare nel suo negozio due volte in un giorno, è una storia un po' mesta di caffè solubile e cibo di base. Olio, riso, pomodori, uova e tranquillo papà, anche un minimo di altro. Ho comprato 12 uova perché le confezioni più piccole non esistono. Sbalzi di colesterolo e una morale della favola: dal rapporto qualità prezzo è chiaro che in questa vita berrò un sacco di latte. Uscendo, ho comprato una lattina di limonata San Pellegrino e una bottiglia di Evian, forse per nostalgia o per ricordarmi che un po' di bellezza esiste.

baci e big hello,

Ilaria